Non c'è due senza tre. In America si discute se legalizzare la poligamia

Piero Vietti
Vi è un criterio oggettivo per definire in un certo modo un’unione tra due persone piuttosto che in un altro? Le recenti vicende attorno al riconoscimento delle unioni omosessuali in gran parte dell’occidente sembrano suggerire di no.

Vi è un criterio oggettivo per definire in un certo modo un’unione tra due persone piuttosto che in un altro? Le recenti vicende attorno al riconoscimento delle unioni omosessuali in gran parte dell’occidente sembrano suggerire di no. La sentenza della Corte suprema americana, che ha posto sotto tutela costituzionale i matrimoni tra persone dello stesso sesso, non ha fatto altro che ufficializzare un sentimento diffuso, rendendo diritto civile un desiderio legittimo. Una sentenza che affonda le sue radici culturali nello smantellamento sistematico del concetto di natura, prima, e di quello di genere, poi. La “unione fra due persone” cui fa riferimento la Corte suprema, eliminando così l’idea di “unione tra un uomo e una donna”, si presta a sua volta a ulteriori interpretazioni. Lo spiegava bene sul Foglio qualche tempo fa il filosofo Enrico Berti: “Si parla di coppia perché due sono i sessi. Là dove si prescinda dal sesso, non si capisce perché si vuole un’unione costituita da una coppia e non da tre o quattro persone. Perché mai deve essere privilegiata la coppia e non una unione di altro tipo?”.

 

Non è un caso se nelle ultime settimane negli Stati Uniti si è rianimato il dibattito attorno alla legalizzazione della poligamia. “Ispirato da quella sentenza”, il 46enne del Montana Nathan Collier ha chiesto al tribunale di riconoscere legalmente la sua doppia unione coniugale. Provocazione? Non soltanto. Venuto meno il criterio dei sessi, per quale motivo il limite dovrebbe essere un numero? E perché il due? Certamente non per tradizione, dato che proprio quest’ultima è considerata superata dal riconoscimento dei nuovi diritti, in continua – e positiva – evoluzione. Qualcuno ha provato a opporre ragioni culturali: su Politico, la scorsa settimana, l’attivista per i diritti civili e avvocato Jonathan Rauch dimostrava come le società che ammettono la poligamia sono gerarchiche e patriarcali. Il che non si sposa bene, evidentemente, con l’ondata progressista delle libertà civili.

 

In meno di dieci anni negli Stati Uniti i favorevoli al riconoscimento della poligamia sono passati dal 5 al 16 per cento. Difficile però che questa percentuale cresca ancora, scriveva il Washington Post, motivando questa affermazione con il luogo comune per eccellenza: negli ultimi anni tanti hanno cambiato idea sui matrimoni gay perché avevano molti amici gay, mentre è più raro avere amici che praticano il poliamore. Ma se il punto decisivo è il criterio oggettivo che viene a mancare, non c’è amico che tenga. Se la premessa necessaria per trasformare in diritto il desiderio di due omosessuali di sposarsi tra loro è la tutela dell’autonomia individuale, cioè la capacità di definire se stessi in rapporto alla propria coscienza e alla società, allora non si capisce perché solo chi negasse agli omosessuali il diritto al matrimonio disprezzerebbe la loro scelta e sminuirebbe il loro status di persone, e non chi si opponesse a più matrimoni contratti contemporaneamente dalla stessa persona. Chiedendo alla Corte suprema di riconoscere le sue nozze, Collier ha detto di non voler cercare di ridefinire il matrimonio: “Non sto forzando nessuno a credere nella poligamia, stiamo solo definendo quello che è matrimonio per noi. Vogliamo solo legittimità”. Perché impedirglielo? Jonathan Rauch, che per la causa dei matrimoni gay in America si è battuto come pochi altri, sostiene che la poligamia non allargherebbe i diritti civili, semmai anzi li limiterebbe per gli altri uomini che avrebbero meno scelta, dal momento che più donne potrebbero sposarsi con lo stesso uomo.

 

[**Video_box_2**]Il ragionamento è però facilmente ribaltabile, come ha dimostrato su The Week Michael Brendan in un articolo intelligentemente paradossale: la monogamia impedisce a molte donne di sposare uomini ricchi se questi sono già impegnati, dice. Seguendo la logica di Rauch, un ipotetico giudice dovrebbe dire alla signora desiderosa di diventare la seconda moglie di Brad Pitt che questo non può avvenire perché discrimerebbe i disoccupati ancora single. Nel suo argomentare Rauch sembra un vecchio conservatore cristiano contro i matrimoni gay: parla di mancata tendenza innata alla poligamia (non starà mica discriminando un bisessuale che volesse soddisfare entrambe le sue preferenze?, provoca Brendan) e cita studi che dimostrano come nelle famiglie nate da questo tipo di unioni vi siano molti problemi sociali.

 

Caduti i tabù culturali, insomma, nulla impedirebbe alla poligamia di diventare la prossima battaglia per i diritti da combattere. Forse non lo sarà, ma la sentenza della Corte suprema la rende possibile. Basta solo trovare una ricca e potente lobby mormonica e il più è fatto.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.