Un episodio fondamentale? “Scilla e Cariddi, la biblioteca. Un capitolo in cui Bloom fa pochissimo: entra a consultare un vecchio quotidiano mentre l’azione è tutta sulle spalle di Stephen”

#JoyceSuisCharlie

Edoardo Camurri
Quando alla fine Bloom se ne sta ubriaco, sembra che dica a quelli dell’Isis: venite qua, vi aspetto. Tutto un sorriso. Ragioni colte e non per cui l’“Ulisse” ha molto da dirci su satira religiosa e matrimoni omosessuali.

Antonio Gurrado Che ci fai qui? Non dovresti essere a Dublino?

 

Edoardo Camurri Devo lavorare: il 16 giugno, Bloomsday ossia giorno in cui si svolge l’“Ulisse” del nostro amatissimo Joyce, giro un documentario in Garfagnana su Giovanni Pascoli. Curioso parallelismo.

 

AG Credevo che non ci andassi per snobismo, a Dublino; in fin dei conti il Bloomsday m’intristisce perché ci sottrae Joyce per consegnarlo a torme di turisti indegni.

 

EC Sì, ma Joyce è di tutti! Leopold Bloom è l’ultimo discendente di una schiera di liberatori, tutti originati da Dioniso, il gran liberatore. E Bloom è il nostro, l’ultimo templare, l’uomo che comparirà alla fine dei tempi. Non sto scherzando; forse solo esagerando. Ma quando alla fine di “Ulisse”, nel quartiere notturno di Dublino, Bloom se ne sta ubriaco, dopo una giornata da leone, con la sua saponetta in tasca, brandendo due costolette di maiale disposte a mo’ di croce, c’è qualcosa di magnificamente e patafisicamente apocalittico. Sembra dica a quelli dell’Isis: venite qua, vi aspetto. Tutto un sorriso.

 

AG E invece dell’Isis sono arrivati i turisti. Asiatici con macchina fotografica, tedeschi col calzino, liceali italiani che il 16 giugno, dopo il corso d’inglese, vengono trascinati nel dedalo di strade di un libro che non hanno letto. Io invece ho vissuto la sofferenza opposta: ho usato l’Ulisse come guida a Dublino alla mia prima visita, quindici anni fa, e ricordo la delusione di quando scoprii che all’angolo fra Nassau e Grafton Street non c’era più l’ottico dinanzi alla cui vetrina si soffermò Bloom ma un negozio qualsiasi. Non ci sono più tornato. Hai visto com’è ridotta la casa di Bloom, al 7 di Eccles Street? Prima l’hanno trasformata in clinica e poi ci hanno affisso una targa commemorativa, lacrime di coccodrillo.

 

EC Senti, il 16 mattina, appena alzato… Un attimo: ce l’hai un gatto, come Bloom?

 

AG No, non ho neanche la fidanzata cui portare la colazione a letto, come a Molly.

 

EC Si fa difficile, e capisco allora quanto possa essere forte la tua delusione turistica. In ogni caso fai così. Il 16 mattina, alzati e cucinati un rognone in padella, come se fossi nel quarto capitolo dell’“Ulisse”. Per vivere il Bloomsday bisogna fare tutto ciò che fa Bloom in quel giorno: non importa dove ti trovi, Dublino non è necessaria. Bisogna imparare la lezione di “Finnegans Wake”, l’altra grande opera che Joyce scrisse una volta finito l’“Ulisse”: ogni cosa è Dublino, Dublino è ubiqua ai casi come il Don Ciccio Ingravallo di Gadda.

 

AG Sarebbe un fulgido caso di vita che imita l’arte. Quindi il piano della giornata è: alzarsi, mangiare un rognone, seguire un funerale, cianciare con giornalisti, pranzare con un sandwich, visitare un museo, comprare un libro erotico dozzinale, ascoltare amici che cantano scrivendo di nascosto una lettera romantica (Whatsapp vale lo stesso?), litigare con un demagogo dal cane minaccioso, sbirciare fra le cosce di una sconosciuta zoppa, assistere a un parto e andare a puttane. Non è facilissimo ma posso provare a vivere il mio privato Bloomsday party; se non ci riuscissi potrei sempre consolarmi con la frase che Stephen Dedalus si dice in spiaggia, nel terzo capitolo: “I am almosting it”, “Lo sto quasendo”.

 

EC Esatto. Hai scritto l’unico programma politico che troverebbe la mia adesione entusiasta. Immagina la giornata di Bloom universalizzata, un mondo che vive entro questa cornice, con tali aspirazioni sublimi. E’ finalmente Montaigne realizzato. E’ l’ultimo uomo dello Zarathustra, che Nietzsche, come ha spiegato Jung, denigrava solo in parte. Piuttosto, quale episodio della giornata vorresti vivere per primo? Io la sbirciatina alla zoppa.

 

AG Io, uno fondamentale che avevo omesso dal precedente novero: Scilla e Cariddi, la biblioteca. Un capitolo in cui Bloom fa pochissimo: entra a consultare un vecchio quotidiano mentre l’azione è tutta sulle spalle di Stephen, intento a dimostrare algebricamente che Amleto sia Shakespeare e lui stesso il fantasma del proprio padre. Così almeno mi riposo: a Dublino il 16 giugno fa molto meno caldo che qui; se Joyce lo avesse ambientato in Italia allora sì che sarebbe stato un romanzo senza trama, come un tg estivo senza notizie. Invece è un romanzo in cui succedono più eventi che in “Game of Thrones”.

 

EC Hai scelto forse l’unica parte della giornata che non ripeterei. Troppe chiacchiere. Adesso capisco perché non hai la fidanzata. Ma non ricordo più: quando Bloom entra in biblioteca ha già in tasca la lettera con la risposta della sua amante di penna, quella Martha cui scrive clandestinamente fermo posta firmandosi Henry Flower?

 

AG Sì: l’ha ritirata dopo colazione. Sotto braccio ha il giornale con le quotazioni di Ascot e dà involontariamente una dritta a un amico per strada. Gli dice che stava per buttare via il giornale e quello capisce che deve puntare su un cavallo che si chiama Buttavia, un outsider. Poi vince davvero: ho controllato i risultati sulla storia dell’equitazione britannica.

 

EC Ecco, è un momento che mi piace tantissimo: Joyce ama davvero tutto. Comprende tutto. Il suo è il grande sì. E’ come se Bloom fosse un Buddha senza posa, senza quell’Oriente ormai un po’ insopportabile. E’ il grande compassionevole. Se ci pensi, è un po’ come l’anima mundi dei neoplatonici: entra e soffia dappertutto. Dalla carezza mattutina al gatto a quando offre a Stephen di sedurre sua moglie a notte fonda, Bloom salva ogni cosa della vita degli uomini. Joyce è un uomo buono. A suo modo, evangelizza ogni cosa. Lo ricordava Anthony Burgess: nell’“Ulisse” non c’è una sola pagina violenta, è un caso rarissimo nella letteratura.

 

AG Ma una scena violenta c’è: Bloom che litiga con il Cittadino al pub rinfacciandogli che Gesù era ebreo quindi l’antisemitismo non ha senso. Quello gli sguinzaglia dietro il cagnaccio Garryowen e Bloom viene portato in salvo da una carrozza che corre via trasformandolo in novello Elia che ascende al cielo. Nell’“Ulisse” c’è anche la violenza perché dev’esserci tutto: il sangue lo sperma le deiezioni e perfino l’amore, “la parola nota a tutti gli uomini”. Per me l’anima mundi più che Bloom è la voce di Joyce, l’attenta scelta lessicale, il ritmo della frase e la maestosità della pagina. Non è solo una questione di stile. Sto dicendo che ogni argomento può essere affrontato all’interno di un universo artistico coerente e perfetto in sé stesso. Joyce è un meccanismo impeccabile; per questo leggerlo mentre scrive di cacca o d’amore non crea alcun disagio, né disgusto né melassa, perché sono ingranaggi che funzionano a meraviglia e rendono normale che un ebreo irlandese obeso in carrozza diventi il profeta Elia che ascende alla gloria dello splendore su un pub di Little Green Street.

 

EC Elia interviene sempre nei momenti di tensione, sia nel libro che nella vita – c’è il refrain del manifesto con l’annuncio “Elia sta venendo” di un predicatore un po’ cialtrone – e ci vorrebbe ora: sto per tirarti due pugni in testa poiché mi dici che Joyce può dire “cacca” perché lo dice bene. Sai che ti dico? Ciò che scrive Joyce degli effetti di un bicchiere di rosso nel ventre di Bloom: “Trrprak. Prrr prrr prrr. Pprrpffrrppff.”

 

AG Rimedio: il punto non è se Joyce dica bene “cacca” ma è che quando dice una cosa è polisemico, ne dice insieme tante altre. Pensa a “Finnegans Wake”: è un lunghissimo gioco di parole di 628 pagine, tendenzialmente a fondo sconcio. Cosa lo nobilita? Il fatto che, affondando nel lessico e scovando cortocircuiti verbali che una persona di medio intelletto non coglierebbe, Joyce va a fondo nell’uomo. Gli mostra ciò che di solito si ritiene separato da un abisso, le cose che si fanno e quelle che non si fanno, quelle che si dicono e quelle che non si possono dire, e il fulcro che le unisce è l’uomo, l’uomo è il centro della sua opera. Per questo Joyce doveva essere il nume tutelare della campagna in favore della libertà di satira, nei giorni in cui andava di moda essere Charlie. A Parigi, poi, dove s’ubriacava di vino bianco (“pipì della duchessa”) e s’arrampicava sui lampioni dichiarando in lacrime l’amore per la parola. Cioè per l’uomo.

 

EC Do il benvenuto a Elia finalmente sceso fra noi a portare la pace. E do il benvenuto, a proposito di libertà di pensiero, anche a Giordano Bruno. “Finnegans Wake” è ispirato a lui oltre che a Vico e in un certo senso ciò che dici, molto profondo e quasi commovente, mostra il legame fortissimo fra le macchine e i teatri della memoria di Bruno e dei grandi maghi del rinascimento – pensa all’“Idea del Theatro” di Giulio Camillo che Adelphi ha appena pubblicato grazie alla magnifica cura di Lina Bolzoni. Ogni parola in “Finnegans Wake” è attraversata da molteplici possibilità combinatorie; è la più grande macchina per pensare; è il libro del futuro. Può dirci moltissimo, anche sulla satira religiosa. Lanciamo la campagna #joycesuischarlie?

 

AG Così ci mettiamo nei guai.

 

EC Solo con terroristi e irenisti per bene, dialoganti con i distinguo, per una certa tendenza democratica a venerare i libri purché non siano aperti e letti sul serio. Con chi ancora è nostalgico dei Valori. Hai presente il punto in cui la crocifissione viene definita “cruelfiction”? Lo trovo stupendo: la finzione della crudeltà, una messa in scena cruenta, una presa in giro degli uomini o di Dio all’interno di un libro che è un’immensa macchia di Rorschach in cui risuona ogni profondità, in un tempo che si trova al di là del tempo, in un’immediatezza dionisiaca in cui tutto è già accaduto e tutto sta per accadere ancora. E poi scusa, non mi avevi fatto notare tu che uno dei modi in cui Joyce chiama Maometto è “Moyhammlet”?

 

AG Sì, ed è una parola preziosissima perché nel nome del profeta – portato in trionfo come eroe di un’univocità aggressiva che rifiuta confronti – Joyce infila Amleto, l’eroe la cui azione viene squinternata dal dubbio, e lo fa iniziare col pronome “moi” per dire che ognuno è stretto in questa parola che incastra la tragedia dell’uomo: l’esigenza istintiva della vendetta e la sua insensatezza razionale. Per somma ingiuria, dentro ci ficca anche la sillaba “ham”, prosciutto. La scrive in un distico che vale da solo il prezzo del libro: “As I once played the piper I must now pay the count / So saida to Moyhammlet and marhaba to your Mount!”. Che vuol dire? Ho una teoria. C’è Maometto e c’è la montagna; “marhaba” vale come “ciao” in siriano ma letteralmente significa “Dio è amore”.

 

EC Una specie di marameo, con un afflato pacifista non so quanto sarcastico.

 

AG Poi. “Play the piper” significa suonare la cornamusa ma basta sfilarne una consonante per ottenere “pay the piper”, ossia pagare il fio. A senso tradurrei così: mi sono divertito, ho fatto lo spiritoso e adesso passo i guai. E’ un verso triste il cui ritmo denuncia una certa allegria del naufrago. Si trova nella versione joyciana della favola della cicala e della formica, che in “Finnegans Wake” diventano “ondt”, ossia la vergogna, e “gracehoper”, colui che confida nella grazia. La formica che lavora e dovrebbe andarne fiera conduce una vita miserrima e gretta di cui si vergogna; la cicala che non fa niente è felice perché ha fede nel perdono delle proprie mancanze. Da questo labirinto di due righe si evince che in Joyce nessuno è univocamente condannato o salvo ma che su ogni trionfo si allunga un’ombra mentre ogni disgrazia cova il germoglio del riscatto. Non c’è linea che distingua i buoni dai cattivi perché uomo e mondo sono un misto di questi principii opposti inestricabili. Joyce lo sapeva perché aveva studiato dai gesuiti.

 

EC Vale il discorso che Juan Rodolfo Wilcock aveva fatto sull’“Ulisse”: è “il miglior antidoto contro la censura, cioè un’opera forte come un castello, in ognuna delle cui finestre si può scorgere una delle facce che fanno più paura alla censura: quella della Bellezza, quella della Verità, quella della Gioia di Vivere, quella dell’Umanità, quella della Bontà, quella dell’Amore; mentre nel tetto la Poesia brandisce sorridente la sua spada lampeggiante. Un’altra opera da leggere nel carcere con cui impudentemente ci minacciano”. Quindi, #joycesuischarlie!

 

AG Chissà se terranno presente l’hashtag Enrico Terrinoni e Fabio Pedone che stanno continuando per Mondadori la traduzione di “Finnegans Wake” interrotta a pagina 400 per la morte di Luigi Schenoni, dopo quattro ardimentosi volumi con testo a fronte. Hai letto qualche brano in anteprima? O sei di quelli che credono non sia possibile tradurlo?

 

EC Vedo Enrico e Fabio quasi tutte le settimane. Beviamo al pub e conversiamo su “Finnegans Wake”. C’è chi ha il tennis, chi molte fidanzate, chi la caccia al fagiano; io ho “Finnegans Wake”. Il loro lavoro è magnifico, sono due fuoriclasse. Non vedo l’ora che venga pubblicato: finalmente si restituirà al lettore italiano la possibilità di avvicinarsi a questo libro difficilissimo che appartiene a tutti. Si può tradurre? La domanda vale per i libri normali, non per “Finnegans Wake” che è piuttosto una macchina per pensare, una ruota di Raimondo Lullo: con questo capolavoro l’esperienza di lettura cambia talmente che ogni modo offerto per entrarci ed abitarlo è il benvenuto.

 

[**Video_box_2**]AG Certo, una traduzione in cui si parla di “ova fiasche” e “avalangoloso merendiluvio”, in cui “i trisfigli continuano a capitrombolare” e Dio è “quel gran capone dell’omniboss” che augura “pax cum spiri tutù”, oltre che eroica è benvenuta perché alla conservazione di ogni aspetto della polisemia (impossibile a riprodursi) preferisce la resa del ritmo gioioso e un po’ cazzone di questo libro che esige, come dice Joyce, un lettore ideale con un’insonnia ideale. E’ un libro assoluto, ma non nel senso esclusivo del termine: non è scritto per non essere letto o, peggio ancora, per essere soltanto studiato da specialisti. E’ divertente e il divertimento è aperto a tutti, anche a chi lo capisce fino a un certo punto. Qualche professore storcerà il naso ma non vedo nulla di sbagliato nell’idea del quidam che ci si avvicina perché ha letto un gioco di parole che vellica un doppio senso sconcio e vuole scoprire se ce ne sono altri.

 

EC Dimmi uno dei tuoi preferiti.

 

AG L’invocazione “O felix culpa” dell’Exsultet. Joyce prima la trasforma in “O Phoenix culprit”, cioè il colpevole che commette atti impuri in un giardino che è sia l’Eden sia Phoenix Park (anzi: Phornix Park), e poi in “O Felix Culapert”, calembour degno di Bombolo che ha il pregio di far ridere anche l’illetterato che non colga il sottile riferimento a Oscar Wilde. Ben venga l’edizione Mondadori di “Finnegans Wake”, che fatta da un editore di nicchia non avrebbe la stessa portata rivoluzionaria. Si dovrebbe pensare anche a una versione popolare, ridotta e spiegata alle masse. Ma scusa, secondo te Bloom cos’avrebbe votato al referendum irlandese sulle nozze gay?

 

EC Avrebbe votato a favore, senz’altro. E’ un uomo ragionevole. Dopotutto vuole che la gente sia felice anche se i discorsi sui principii li trova giustamente sopravvalutati. Come le opinioni, questa gran tirannide che pesa su di noi. Tu cosa ne pensi?

 

AG Non so Bloom, ma penso che Molly avrebbe votato contro.

 

EC Touché.

 

AG Dal suo letto di 7 Eccles Street Molly detesta la guerra, pensa che sia uno spreco di carne giovane di bei ragazzi che considera con occhio benevolo un po’ da mamma e un po’ da zoccola. Forse avrebbe osteggiato il referendum perché strumento divisivo anziché espressione d’amore, la parola nota a tutti gli uomini. Una sola cosa spero: che nessun propagandista tiri fuori Leopold Bloom icona gay. E’ vero che nel visionario capitolo ambientato nel bordello Bloom si trasforma in donna e dà alla luce un bimbo; però ecco, diventa donna nella misura in cui la maîtresse che lo tortura si fa uomo. Ho idea che Joyce pensasse a maschio e femmina come elementi opposti tanto complementari da non poter fare a meno l’uno dell’altro, nell’animo individuale così come nella formazione di una coppia. Bloom è “il nuovo uomo femminile”; però riserva l’amore coniugale alla moglie che lo tradisce perché lo trova così diverso da tutti gli altri uomini che ha amato di meno.

 

EC Vogliamo chiudere il cerchio in un amplesso joyciano che tenga insieme tutta la nostra spensierata conversazione? Bloom non è l’unico a trasformarsi in donna in Joyce: in “Finnegans Wake” succede anche a Maometto, che diventa “loretta lady, a maomette to his monetone”.

 

AG Non ci avevo fatto caso. Speriamo di venire bene nel video della decapitazione.

 

Questo dialogo tra Edoardo Camurri e Antonio Gurrado si è tenuto alcuni giorni prima del Bloomsday. Ve lo proponiamo oggi.