Maria De Filippi durante una sua trasmissione. “Lei davvero ti fa diventare una star”, e la gratitudine che i concorrenti le dimostrano è sempre sincera, non a caso la frase totemica di “Amici” è “Gra

L'apostolo Maria

Salvatore Merlo

La tivù della santissima De Filippi sembra fatta apposta per perpetuare pensieri, parole e opere dell’uomo venuto da Arcore. Anche col contributo di Renzi e Saviano.

Lui continuerà a vivere anche dopo che sarà morto, come Lenin nel mausoleo, attraverso un codice, un’emanazione, una luce immortale e un televisore acceso che trasmette Maria De Filippi. E allora, ecco le donne che si truccano un po’ come travestiti, sempre le stesse dai tempi di “Drive In”, con cattedrali di labbra e pasta asciutta sui fianchi, come le olgettine. Ed ecco gli uomini, gay oriented, un po’ Tarantini e un po’ Conan il barbaro, sono depilati come si conviene, fino alle sopracciglia disegnate, e talvolta hanno pure l’orecchino, che non è più la trasgressione di David Bowie ma l’omologazione di Matteo Salvini: un grande e sempre identico, ipnotico baraccone di super cafoni che litigano, ballano, piangono e poi dicono: “Inseguo il mio sogno. Ma resterò me stesso”. E il cerchio oggi lo chiudono Matteo Renzi e Roberto Saviano, che forse sarà ospite fisso di “Amici”, entrambi alla ricerca del grande pubblico, quei sei milioni di telespettatori che forse non votavano tutti per Berlusconi, forse adesso non voteranno tutti per Renzi, ma pure sono berlusconiani nell’anima, e persino senza saperlo, perché Berlusconi ha ridisegnato l’estetica e sconvolto la grammatica di un paese che sembra partorito da quella televisione Fininvest e poi Mediaset che trova oggi compimento nel misto ubriacante di Maria De Filippi: alto e basso, tragico e comico, popolare e colto. Fedele Confalonieri la chiama “nostra signora dell’audience”, e “Maria De Filippi è bravissima”, dice. “Chapeau alla televisione di Bernabei, alla televisione degli anni 60. Ma quella era una tivù che voleva insegnare come si sta al mondo, dal maestro Manzi fino alla religione, era una tivù che voleva educare. Noi invece non vogliamo insegnare niente a nessuno, non abbiamo presunzione, non giudichiamo. Berlusconi ha portato l’audience e l’americanismo in Italia, che significa non avere la puzza sotto il naso, significa non aver schifo del popolo, dei suoi sentimenti e delle sue passioni. Io preferisco Schumann a Marco Carta, ma le canzonette le rispetto, anche se non mi piacciono. Ed è questa la ragione per cui poi il Cavaliere sfondò anche in politica. Ecco, Maria De Filippi, oggi, è la sublimazione massima, di maggior talento, della nostra televisione”. E insomma questa donna, questa tele-donna, è l’epitome del berlusconismo, il lascito, il legato testamentario, perché se la politica non va più bene come un tempo, se nei sondaggi Forza Italia sta dietro la Lega, se insomma il berlusconismo non è più maggioranza in Parlamento, sembra invece esserlo nel cosiddetto e inconsapevole paese reale che gonfia gli ascolti tanto più aumenta la dose dell’horror: lei è nel suo immaginario, nel suo apparire, nel suo pensare, nei suoi codici e nella sua grammatica spesso sgrammaticata, anche a sinistra. “Se fossi il sociologo De Rita io guarderei ‘Uomini e donne’, mica ‘Ballarò’. Solo lì c’è lo squinternato che vuole diventare Jonny Depp”, dice per esempio Roberto D’Agostino, l’inventore del Cafonal, lui che la De Filippi la chiama Maria la Sanguinaria, “perché è fetish”, lui che del trash fa elegia, stile e filosofia di vita, persino scuola di giornalismo. “Quelli della De Filippi sono programmi spia”, dice, “io li guardo per capire a che punto siamo con la depravazione. Anche se, per la verità, preferisco YouPorn ai tronisti intronati”.

 

Ma il fatto è che la separazione degli ambiti e dei linguaggi è possibile fino a quando non esiste un marchingegno diabolico come quello della De Filippi, che li frulla tutti insieme con surrealistica spensieratezza, come scrive Claudio Giunta riferendosi guarda caso all’attuale presidente del Consiglio (che di Berlusconi è notoriamente il figlio), in un libro intelligente, pubblicato dal Mulino e intitolato “Essere #matteo renzi”: non l’ombrello e la macchina da cucire ma il senatore a vita e la pin up, il ministro e la balera, il cardinale e il rapper, Renzi e il giubbotto di pelle, Saviano e i ballerini. Tutto candidamente sorprendente, quanto una sciocchezza.

 

E i tronisti, questa categoria umana che ha creato e battezzato lei, Maria, erano stati persino utilizzati per segnare il cambio di stagione nella terra di Gomorra, a Casal di Principe, nientemeno. Ne scrisse su Repubblica Antonello Caporale, dei pettoruti fratelli Cristiano e Salvatore Angelucci, chiamati e stipendiati dal municipio per ripulire il volto della comunità afflitto da telecamere e cronisti, la città presidiata da soldati e umiliata dalla Camorra: “Dopo essere stati contattati, sono stati spogliati. A fin di bene. Come location i luoghi più belli e rinomati del paese. Il retrobottega di una pasticceria, per esempio. Tanta crema sul torace depilato di Cristiano e una ragazza a definire con le proprie dita i muscoli scolpiti. E’ la foto per il mese di febbraio”. E fu un tronista di “Uomini e donne”, tale Domenico Cozzolino, anni ventuno, bel moro atletico e già aspirante al “Grande Fratello”, che su Chi di Alfonso Signorini venne fotografato mentre baciava la sua biondina, la famosa Noemi da Casoria, curvo su di lei, come nella pubblicità del cuore di panna. Anche Alessandro Di Battista, oggi punta di diamante dell’esercito pentastellato di Beppe Grillo, ce la mise tutta per entrare nella caserma di “Amici” di Maria De Filippi, voleva fare l’attore. E insomma il cortocircuito, o meglio lo strano amalgama, si fa perturbante come nella letteratura freudiana, tra Arcore e il blog di Casaleggio, Gomorra e i palestrati, quasi a dimostrare che Maria De Filippi e dunque Berlusconi (che è in grado di farsi attore e spettatore, impresario e protagonista del suo stesso gossip) sono la nostra finestra sul cortile italiano.

 

E tronisti e troniste sono stati candidati e candidate in Parlamento, ancora prima che i deputati o i consiglieri regionali fossero selezionati, dalla destra e dalla sinistra, come vengono scelti i saranno famosi di “Amici”: con il casting. Ed è l’occhio di Renzi che trae dall’anonimato della provincia e proietta sul palcoscenico girevole di Montecitorio, com’è l’occhio di Maria su cui si riflettono le opportunità di successo dei tanti giovanotti che in televisione ballano, cantano, recitano o non sanno fare niente. Che ci si scandalizzi o meno per le liste Beautiful di rutelliana memoria, per gli anchorman e le veline candidati, per l’ex principe che per rendersi presentabile dovette farsi ballerino nel talent show, per le donne autocandidatesi in lista via rivista (lo chiese Antonio Di Pietro alle lettrici di Gioia), non solo il palco è lo stesso, ma anche il metodo: un provino. Il trionfo del Cavaliere, il suo lascito al sistema.

 

Dice Massimiliano Panarari, professore della Luiss, autore nel 2010 per Einaudi di un libro dal titolo “L’egemonia sottoculturale”: “Sostenere che Maria De Filippi sia un genio creativo è socialmente accettato, anche a sinistra. E’ una specie di luogo comune salottiero. Barbara d’Urso, che pure fa degli ascolti stellari e non è più volgare della De Filippi, invece per questi stessi ambienti è rivoltante, non è socialmente accettata. L’una è trash, l’altra è pop. Chissà perché”. Tempo fa Aldo Grasso ha scritto così: “Alle volte ci si chiede perché l’Italia attraversi una fase così involutiva, perché non cambi mai nulla, perché la volgarità e il qualunquismo finiscano sempre per intorpidirci le idee, perché una che ha inventato i tronisti debba anche essere celebrata per questa scelleratezza espressiva”. E insomma la signora d’Urso e la signora De Filippi appartengono allo stesso immaginario televisivo, come d’altra parte vi appartengono anche Massimo Giletti e Paola Perego, che invece lavorano per la Rai, e sono soltanto meno bravi di Barbara d’Urso e della De Filippi, “ma è la stessa televisione”, dice Panarari, lo stesso fumetto italiano e berlusconiano su cui sopravvive stracco anche il servizio pubblico. E Riccardo Bocca, critico, erede di Sergio Saviane all’Espresso: “Arriveremo al punto in cui se non il capo dello stato, se non Sergio Mattarella, potrebbero essere ospiti da Maria De Filippi il presidente del Senato o quello della Camera. Succederà. Lei è persino qualcosa di più di una sublimazione berlusconiana. Lei tenta di vendere un approccio, una filosofia di vita. Prendete ‘Amici’.

 

Questa trasmissione vende un’epica, l’idea che tutto si possa fare, che tutto si possa ottenere con la volontà, che tutto, fama, denaro, gloria, sia a portata di mano. E il suo è un sogno, come un sogno è stato il berlusconismo: tutti voi potete diventare come me, ricchi come me”. Ma il sogno berlusconiano, in politica, si affloscia nella ribellione di Raffaele Fitto, e nelle risse di Forza Italia, e insomma come in tutti i film arriva un momento in cui si esce dal cinema. “E invece il film berlusconiano della De Filippi è senza fine”, dice Bocca. “Lei davvero ti fa diventare una star. E la gratitudine che i concorrenti le dimostrano, sempre, è una gratitudine sincera. La frase totemica di ‘Amici’, non a caso, è: ‘Grazie Maria’”. E infatti dell’immortalità di Silvio, o meglio della natura dell’immortalità di Silvio, che non è dunque politica ma ha forse a che vedere con il cammino della società, la sua evoluzione o involuzione estetica, aveva capito tutto Franco Maresco, con il neorealismo surreale di “Belluscone”, film di sottofondo e sottotraccia del sottoproletariato di Palermo, come scrisse Pietrangelo Buttafuoco. A un certo punto c’è un gruppo di ragazzi, braccia e gambe tatuate, che sul palco di una sagra neomelodica gorgheggiano con spaventevole accento, e agitano le mani o i capelli a semicresta, cantando questa canzone dal titolo profetico: “Vorrei conoscere a Berlusconi”. E allora i giovanotti imitano il Cavaliere, si fanno applaudire, sorridono d’una ignoranza assoluta, e nel sogno di Arcore, di cui non sanno niente come non sanno niente delle stragi di mafia, del ’92 e di Falcone, di Borsellino e di Capaci, vedono solo un trampolino per arrivare a cantare nello studio di Maria De Filippi. Ed è tutto qui, sogni di gloria, risse, parolacce, freddure, assalto di scollature, balletti, istinti primari, mamme che ritrovano le nonne, in un miscuglio imprendibile e ipnotico, in cui Renzi dice “avremo speranza se potremo coltivare i sogni”, mentre Piero Fassino appare come la Madonna di Medjugorje alla sua vecchia tata riuscendo a strapparle un lacrimoso sorriso, e Roberto Saviano racconta Gomorra a dei bambocci in tuta azzurra.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.