Statue color fluo del Buddha decorano l’abitazione e galleria di un famoso designer occidentale a Yangon, Birmania. I Buddha sono in vendita a 50 dollari l’uno, i fedeli sono stanchi del mercimonio

Buddha bar

Massimo Morello
Tatuaggi, statuette, persino il copriwater con l’immagine sacra. I buddhisti si stanno innervosendo, e diventano aggressivi.

Dieci piccoli Buddha. Di resina trasparente in smaglianti colori fluo. Sono esposti, tra altri oggetti preziosi, nel salone di una villa nella Golden Valley, il quartiere più esclusivo di Yangon, Birmania. E’ l’abitazione e galleria di un designer occidentale (nonché, si dice, ex agente dei servizi segreti francesi). I Buddha sono in vendita a circa 50 dollari l’uno. Ma, confida la commessa, non sono birmani. Provengono dal Tha Prachan, il mercato degli amuleti di Bangkok, di fronte al Wat Mahathat, monastero e università buddista. Il monastero è frequentato da molti farang (occidentali) per i corsi di meditazione. Il mercato attira turisti, arredatori e mercanti in cerca d’oggetti esotici e sacri. Come quei Buddha, venduti a prezzi variabili (secondo quantità) tra i 60 e 160 baht (1,80 e 5 euro). 

 

E’ un mercimonio che si può considerare un peccato “veniale”. Dipende da quale collocazione troveranno i Buddha. Si legge nel sito della thailandese Knowing Buddha Organization: “L’immagine o la statua del Buddha non va applicata o posizionata su oggetti o luoghi non idonei. La statua del Buddha va tenuta lontano dagli oggetti d’uso giornaliero come fazzoletti, tovaglioli, asciugamani, stracci o altri articoli per la pulizia… La statua del Buddha non deve mai essere collocata in bagno”. E’ consentito collocarla “in posti appropriati con l’intenzione di portargli rispetto”.

 

Il peccato, però, può diventare ben più grave. Non solo in senso karmico, ossia con effetti sul samsara, ciclo di vita, morte e rinascita, ma penalmente. Offendere il Buddha non provoca certo reazioni paragonabili a quelle degli integralisti islamici. Ma sono sempre più forti e numerosi i movimenti che cercano di trasformare il Dharma, la legge morale, in legge dello stato, dottrina politica. E ancor più numerosi i casi in cui un’offesa al “sasana” (termine che ingloba la comunità buddista, l’essenza stessa dell’insegnamento del Buddha e con cui i buddisti si riferiscono alla loro dottrina) sono pagati a caro prezzo.

 

E’ accaduto, per esempio, a Philip Blackwood, 32 anni, neozelandese, uno dei giovani hipster che stanno cercando fortuna in Myanmar, paese più noto come Birmania. Blackwood, che gestiva il VGastro Bar di Yangon, uno di quei locali che stanno trasformando quello “stato post totalitario” in destinazione di tendenza, è stato arrestato nel dicembre scorso per insulto alla religione. Detenuto nel carcere di Insein, dov’erano torturati gli oppositori del regime militare, di recente è stato condannato a restarci per altri due anni e mezzo. Il suo peccato è stato l’aver pubblicizzato l’happy hour con un’immagine del Buddha con auricolari da Dj su uno sfondo “psichedelico”. A sua discolpa Blackwood ha dichiarato di averlo fatto perché “usare il Buddha in pubblicità è di moda a livello internazionale”.

 

La sua non è una giustificazione priva di fondamento. Spiega José Ignacio Cabezón, docente di buddhismo alla University of California: molto spesso il buddhismo “è percepito come una specie di religione minimalista, più che altro una terapia, che richiede un minimo impegno metafisico”. E’ un’idea che deriva dalla controcultura Beat anni 50, con le suggestioni di Allen Ginsberg e Jack Kerouac, si rafforza con tutte le declinazioni dello Zen seguite a “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert Pirsig, continua ad alimentarsi nelle parole del Siddharta di Hermann Hesse, più che in quelle del Sutra del Loto e delle scritture buddiste. E così, poco a poco, scrive Cabezón (citando alcuni grandi maestri tibetani), il buddhismo è stato inglobato nel consumismo, come una specie di antidepressivo spirituale. “Il consumismo è un problema in sé, ma da un punto di vista buddista diventa ancor più grave quando il buddhismo stesso diviene oggetto di consumo”. 

 

Nell’immaginario occidentale, il Buddha è divenuto un’icona il cui significato spirituale si perde tra suggestioni di un’esotica serenità. E’ l’icona che negli anni 90 fatto la fortuna dei Buddha Bar, catena di bar-ristoranti che servivano cucina asiatica e la cui sala era dominata da una grande statua del Buddha. Un marchio rafforzato dalla serie di compilation di musica lounge, world music e new age.

 

I Buddha Bar, poco a poco, sono passati di moda, anche per le proteste di gruppi buddisti come la Knowing Buddha Organization, che hanno decretato che “la statua del Buddha non deve mai essere posizionata all’interno di un bar o di un ristorante”. Ma ormai la moda era stata lanciata e l’immagine del Buddha da icona è diventata feticcio utilizzato per qualsiasi cosa, compresi dei puff su cui accomodarsi (ignorando pure che i buddhisti considerano sacra la testa, in quanto sede dello spirito) o addirittura dei copriwater. Una statua del Buddha ha fatto da sfondo al videoclip “Sexy Bitch” di David Guetta e altre immagini sono state utilizzate per decorare la scena di un servizio di biancheria intima o dare un tocco di trasgressione a immagini di nudo pubblicate dalla rivista Penthouse.

 

Il Buddha e altre immagini o simboli sacri della spiritualità asiatica sono anche divenuti uno dei soggetti preferiti dei cultori del tatuaggio. “I farang, gli stranieri, non ne comprendono il significato. Per loro è solo una moda”, ha detto Niphit Intharasombat, ex ministro della Cultura thailandese. Il tatuaggio è letteralmente uno dei “punti” più sensibili per il nuovo integralismo buddista. Specie in Thailandia, dove lo stesso ministro aveva presentato un disegno di legge (poi respinto) per proibire che sulla pelle dei farang fossero tatuate le immagini del sak yant, il tatuaggio sacro (Sak significa tatuaggio, Yant deriva da Yantra, termine che indica i simboli utilizzati per favorire la meditazione). Realizzato da monaci o da Ajarn, Maestri, di quest’arte, il sak yant rappresenta le figure dello sterminato pantheon hindu-buddhista circondate da arcane scritture khmer – la Cambogia è considerata la culla della magia – per trasmettere poteri specifici (per esempio l’invulnerabilità), attrarre la fortuna o la benevolenza (è il caso del tatuaggio del Jingiok, il geko, simbolo di “compassione”, nel senso di assenza di giudizio, molto amato dalle prostitute), avere successo negli affari o superare gli esami. Sino a poco tempo fa, il sak yant era una delle espressioni più diffuse della religione popolare thai, misto di buddhismo, animismo e induismo. Ma poi  Angelina Jolie si è fatta decorare il corpo con diverse immagini yant. Compresa una grande tigre sul fondoschiena. Così ha fatto la fortuna di Ajarn Noo Kampai, già noto in Thailandia come grande maestro ma ora divenuto un santone globale, e ha trasformato il sak yant in fenomeno di moda, dando origine al fenomeno del “tattoo tourism”. A frenare questa moda sono stati molti altri Ajarn, che temevano di essere puniti dal khru, lo spirito protettore della loro arte. Senza contare che, nella sua forma autentica, il sak yant è piuttosto doloroso, eseguito picchiettando la pelle con lunghi spilloni intinti in un inchiostro vegetale – corretto, dicono, con veleno di serpente. La maggior parte dei turisti preferisce affidarsi una nuova generazione di tatuatori (compresi alcuni occidentali), che utilizzano una macchinetta elettrica per realizzare disegni, sempre a tema esoterico-buddhista, ma in versione “fashion”.

 

Come quel Buddha seduto sopra un fiore di loto dischiuso che ornava il braccio di Naomi Coleman, 37 anni, infermiera inglese. Proprio per quello è stata arrestata all’aeroporto di Colombo, in Sri Lanka, con l’accusa di “offendere il sentimento religioso”. A nulla è valsa la sua professione di fede buddista e la dichiarazione di aver partecipato a ritiri di meditazione in Thailandia, India, Cambogia e Nepal. Dopo una notte in prigione e un processo per direttissima è stata espulsa. La stessa sorte, per lo stesso motivo, era già toccata ad altri turisti occidentali.

 

Bisogna ammettere che poche immagini sacre sono state vittime di tante blasfemie e sacrilegi come quella del Buddha. Anche perché, spiega lo studioso di buddhismo Paul Fuller, “il sacrilegio non è un’idea insita nel buddhismo. Secondo le scritture il Buddha, libero da ogni attaccamento alle cose transitorie di questo mondo, inclusi gli oggetti sacri, non si sarebbe minimamente sentito offeso”. Il problema, sostiene Fuller, è un altro: per un buddista l’immagine, più che sacra, “ha il potere di proteggere dai pericoli e produce effetti benefici su questa vita e la prossima”. Offendere l’immagine e utilizzarla in modo scorretto produce invece effetti contrari. Anche su coloro che non si sono opposti. 

 

Per quanto infausta possa essere l’offesa, non giustifica le derive integraliste del buddhismo. Specie in Myanmar e Sri Lanka. Pur separati da etnia, lingua e dall’oceano Indiano, formano il cosiddetto “Asse dell’estremismo buddhista”. In Sri Lanka s’incarna nel Bodu Bala Sena (la forza d’attacco buddista). In Myanmar nel movimento 969, che si richiama ai nove attributi del Buddha, i sei del suo insegnamento e i nove del Sangha, la comunità dei fedeli. Entrambi s’ispirano a un’idea di purezza etnica, culturale e religiosa. Che ha per antagonista principale le minoranze musulmane.

 

Si è così determinata, in molti osservatori, una specie di perversa corrispondenza tra integralismo islamico e buddhista. Quest’ultimo, invece, è ben più complesso di quanto appaia nell’ottica occidentale e monoteista, coi suoi criteri di giudizio tanto netti e “corretti”, e che non considera l’asimmetria dei fenomeni. Con un’analisi più sottile, è proprio nel senso del dubbio e della ricerca individuale, sottinteso a tutta la cultura buddista, che si possono cogliere i motivi inconsci di contrasto con l’islam. “E’ la paura che genera violenza”, dice Ajarn Sulak Sivaraksa, filosofo buddhista thai. “L’islam è una religione cattiva: uccidi e vai in paradiso”, semplifica un vecchio monaco che vive in solitudine in un villaggio del nord della Thailandia. “L’islam è una religione del ‘non importa’. Non importa uccidere qualcuno”, afferma un monaco birmano.

 

[**Video_box_2**]L’origine del problema è la stessa di tutti i conflitti etnici e religiosi che negli ultimi anni sono esplosi in Asia: una miscela di democrazia immatura, nazionalismo, tensioni alimentate in epoca coloniale, sperequazioni economiche. E la paura, a sua volta, è generata dal confronto con una religione così chiusa, anche in termini sociali ed economici, come quella musulmana.

 

In Birmania, poi, il movimento sta diffondendosi proprio per le aperture democratiche del governo. Il regime militare che ha dominato il paese sino a tre anni fa non lo avrebbe consentito, tanto che nel 2003 lo stesso Ashin Wirathu, il leader del 969, era stato incarcerato per istigazione alla violenza anti musulmana, ed è stato liberato solo nel 2012 con altre centinaia di prigionieri politici. Sono proprio molti degli oppositori al regime rifugiati all’estero e oggi rientrati in Myanmar che enfatizzano la contrapposizione all’islam. “L’islam è un pericolo, saremmo folli a negarlo. Ha distrutto il buddhismo nel subcontinente indiano. L’Islam non è mai moderato ed è non-negoziabile. E’ contrario alla ragione”, ha dichiarato uno studioso birmano educato in America al sito Asia Times.

 

E’ in quest’ottica che va giudicato l’atteggiamento di Aung San Suu Kyi, accusata di aver “tradito” la causa per la quale ha trascorso vent’anni agli arresti e rischiato la vita. In particolare la Signora è giudicata colpevole di silenzio riguardo l’ennesima persecuzione contro i Rohingya, minoranza musulmana stanziata nel Rakhine, la regione birmana affacciata sul Golfo del Bengala. Anche in questo caso, osservando da lontano, si sono create parecchie confusioni. A partire da quelle geografiche: in alcuni casi i Rohingya sono stati “assimilati” ai musulmani delle regioni centrali e viceversa. In altre parole: per molti, in occidente, tutti i musulmani birmani sono Rohingya. La loro situazione, invece, è tanto più drammatica, quanto differente. I Rohingya sono gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono circa 800 mila persone, etnicamente e culturalmente assimilabili ai bengalesi. Per tale differenza in Birmania sono discriminati e perseguitati più di chiunque altro, considerati “immigrati illegali”. Sono talmente disperati da cercare rifugio in Bangladesh, a maggioranza musulmana, uno dei paesi più poveri al mondo. Dove sono confinati in campi privi d’ogni assistenza. E’ l’ennesima guerra tra poveri. Più o meno, è ciò che ha dichiarato Aung San Suu Kyi: “Sto chiedendo tolleranza, ma non credo che si dovrebbe usare la propria leadership morale in nome di una qualsiasi causa senza andare realmente all’origine del problema”.

 

La Thailandia rappresenta un caso diverso: la maggioranza buddista continua a esprimere la virtù della tolleranza. Ed è qui che il buddhismo è stato trasformato in bene di consumo. Come ha dichiarato qualche anno fa uno degli esponenti del Dhammakaya, una “chiesa” buddista dedita al proselitismo globale: “Dobbiamo pensare al Buddhismo come a una commodity”. Un progetto che si è materializzato in un tempio simile a una giganesca astronave atterrata nella zona industriale a nord di Bangkok. Ma anche in Thailandia i tempi stanno cambiando: per l’escalation dell’insorgenza islamica nel sud e per il nuovo ordine politico. Gli abati del Dhammakaya sono stati accusati di simonia per aver accettato milioni di dollari in cambio di ricompense nella prossima vita. Il loro peccato più grave, però, è aver sostenuto il precedente governo della famiglia Shinawatra, deposto dal colpo di stato del maggio scorso. Il nuovo primo ministro, il generale Prayuth Chan-ocha, sostiene invece l’ala conservatrice del Sangha, la comunità buddista, che considera uno dei pilastri (con la monarchia e il nazionalismo) della nuova politica thailandese, sempre più orientata a seguire la “via asiatica” predicata da Pechino. Secondo Ding Gangis del People’s Daily, uno degli organi del governo cinese, la soluzione è quella del modello confuciano: “Per mantenere ‘armoniosa coesistenza’ tra diverse religioni ed etnie, le nazioni asiatiche devono mettere in pratica le loro politiche in modo perentorio”. Più affascinante quella del Maestro Zen Thich Nhat Hanh, leader spirituale, poeta e attivista per la pace: “Se incontri il Buddha uccidilo. Devi liberarti da ogni dogma. Se non sei capace di uccidere il Buddha non puoi uccidere i tuoi preconcetti”.

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