Vincino sul referendum sull'acqua

Le convergenze parallele tra Bucci e Orlando (contro le privatizzazioni)

Carlo Stagnaro

Anche l’Italia ha bisogno del suo momento hayekiano per dire “this is what we believe”

Cos’hanno in comune Marco Bucci, neo-sindaco genovese in quota centrodestra, e Leoluca Orlando, eterno sindaco palermitano in quota se stesso?

S’ode a destra uno squillo di tromba: “Non si privatizza in regime di monopolio lontano da leggi di mercato, si regala solo carta bianca così. E poi quella destra-sinistra è una semplificazione. La privatizzazione è un mezzo, non un fine. Il fine è dare ai cittadini qualità al minimo costo. Lo faremo con l’azienda pubblica” (Bucci).

Da sinistra risponde uno squillo: “La disaffezione c'è ed è dirompente. Forse perché quei gruppi dirigenti inseguono la destra e i populisti, per esempio sulla sicurezza, sull'immigrazione, sulle politiche liberiste. Mentre io vinco anche perché a Palermo non ho ceduto alla privatizzazione dell'acqua pubblica” (Orlando).

Queste poche parole valgono quel che valgono: i sindaci andranno giudicati per come amministrano. Eppure, le parole sono importanti: quello che rivelano le prime dichiarazioni rilasciate dai due protagonisti delle amministrative delle scorse settimane è un diffuso, condiviso pregiudizio passatista e anti-mercato.

Un pregiudizio immotivato. Per stare ai due casi citati, l’Amiu di Genova è oltre l’orlo del dissesto: non è fallita solo perché i genovesi pagano la quarta Tari più cara d’Italia (e non per avere il quarto servizio più efficiente). L’Amap palermitana sembra passarsela un poco meglio dal punto di vista del conto economico, ma anche qui principalmente a causa di generose iniezioni di denaro da parte dei contribuenti. Un pregiudizio che non regge né sul piano empirico, né su quello teorico.

Questo pregiudizio, che potremmo chiamare populismo idrico (con Salvatore Merlo) oppure benecomunismo (con Francesco Forte), è una delle ragioni per cui l’Italia appare tanto allergica alle riforme. Le resistenze politiche non sono altro che il sintomo di una più profonda ostilità culturale, da cui traggono vantaggio clientelismi e inefficienze.

Per rispondere a un rigetto tanto ampio, e restituire quindi una prospettiva di crescita, servono due ingredienti: un lavoro “dal basso” per riportare in auge la cultura del mercato e i valori della modernità, e un esercizio di leadership da parte di chi si candida a guidare il paese. Quello che ci manca è un momento tipo “this is what we believe”, cioè quel gesto con cui Margaret Thatcher (non ancora primo ministro) sbatté sul tavolo di fronte ai suoi colleghi di partito una copia di The Constitution of Liberty proclamando “questo è ciò in cui crediamo”. Ma finché non lo crederemo anche noi, e finché non crederemo di crederlo, l’Italia non avrà altro futuro che non il proprio passato.

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