Dea Fides ha inaugurato ottobre, i giovani Salii purificheranno le armi, si apre il tempo di Numa-Quirinus

Alessandro Giuli

    Il mese di ottobre si è aperto in nome di Giano Curiato e della Fides Publica, il cui culto viene fatto risalire al secondo re dell’Urbe, il sabino Numa Pompilio. In età repubblicana, Aulo Atilio Calatino fece innalzare sul Campidoglio un tempio a Fides in sostituzione dell’antico sacellum numano. Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza di tale divinità, senza la quale non v’è patto né addirittura riconoscimento possibile fra uomini e civiltà. Una dimostrazione simbolica di quel che dico sta nel fatto che il vir antico soleva identificare nella mano destra la sede eletta di Fides, a conferma di quanto la gestualità elementare – nella dextrarum iunctio, per esempio – tràdita fin dall’antico aderisca a un’originaria concezione metafisica nella quale il microcosmo umano è specchio consentaneo del sacro immanente nelle forze macrocosmiche. Numa, narra Livio, aveva “per naturale disposizione un temperamento virtuoso e si era formato non tanto su dottrine forestiere quanto sulla rigida e severa disciplina degli antichi Sabini, gente di una integrità allora senza eguali”. Il sovrano aveva ricevuto da Romolo divinizzato (in Quirino!) un popolo assai bellicoso, stabilì dunque di legarlo più vivamente al culto del sacro, senza per questo esporlo all’infiacchimento, in modo da rendere completo e sicuro, legittimo e giusto, l’agire dei Romani. La lucente Fides divenne così il pegno di un saldo equilibrio fra il patriziato dei vicini popoli italici e quello delle genti romulee, poiché “la Fides solo l’atto spontaneo di chi è capace di interiore nobiltà, può stabilirla” (Julius Evola). Livio ci dice che la religiosità del popolo romano impressionò a tal punto i popoli confinanti, i quali dimentichi delle passate guerre, cominciarono a portare grande rispetto all’Urbe e ritennero sacrilegio turbarne la pace. E i Patres tramandano ancora oggi che Fides è da concepire “al par di un nobile, altissimo principio, tale da impersonare un ente divino. In tal senso operò Numa Pompilio, il Legislator sollemnis; la sua regia maiestas non fu da meno di quella romulea che operò pugnaciter. Infatti non si trattò di abbattere il romano valore, ma di custodirlo integro e rivolgerlo alla costruzione di uno stato saldo che potesse sviluppare grande potenza, onde rozzezza e durezza si mutassero in fulgida eroicità e la tempra romana si affermasse e manifesta risaltasse la sua energia civilizzatrice. Si stabilizzò sul Campidoglio la Triade divina arcaica – Juppiter Mars Quirinus – e il popolo romano divenne il popolo dei Quiriti, pronti per la pace, pronti per la guerra”, e allora del tutto impermeabili all’abiezione del materialismo.

     

    Numa fece anche edificare un tempio a Giano, quale segno di pace e di guerra. Quando le porte del tempio erano aperte l’Urbe era in armi, quando erano chiuse regnava la pace. Durante il regno numano le porte del tempio rimasero chiuse. Vuol dire che il popolo romano era in gran concordia perché superna fides – supernum numen vi regnava, e in figura di dea Fides. I Quiriti vegliavano e il padre Marte in loro; nessun complotto poteva sconvolgere la civitas, nessun contagio poteva penetrare nell’Urbe, non arma barbara offenderla, nessun animo ostile.

     

    Tanto basterebbe. Aggiungo soltanto questo, e cioè che in Numa, come nel Manu vedico, è attivo il lignaggio del facitore di leggi avite (di qui il Mos Maiorum) centrate nell’ordine rituale del sacro (lo rta indiano). Con l’opera numana, in modo speciale nel mese di ottobre, si compie il passaggio del Marte guerriero (Romolo) nel Marte Tranquillo ovvero Quirino, e si badi al fatto che Numa proviene dalla civitas sabina di Curi, la cui radice è la stessa di Quirinus-Co-vir-inus, ovvero il nume che riunisce il popolo in armi nelle curie civili pacificate, titolare dell’omonimo colle abitato in principio dai Sabini. Non per caso nel diciannovesimo giorno di questo mese, una volta sacrificato il cavallo marziale con solenne cerimonia (nelle Idi del 15), i giovani sacerdoti Salii (anch’essi istituiti da Numa e addetti al culto di Marte Gradivo) effettuano l’Armilustrium portando in processione gli scudi sacri al nume: una cerimonia di purificazione che segna l’epilogo stagionale delle campagne belliche e l’ingresso nel tempo di Quirino. Così fino alla primavera prossima.

     

    Da ultimo. E’ noto ai più come Caio Giulio Cesare, già dictator ormai e da lungo tempo Pontefice massimo, prima di morire abbia voluto per sé il massimo sacerdozio quirinale (flaminato) e si sia fatto monumentalizzare in forma di statua nel tempio di Quirino. Imitatio Romuli, dissero i contemporanei come Cicerone, augurandogli senza molta simpatia il medesimo smembramento rituale occorso a Romolo (un’apoteosi fulgurale, in realtà) per mano di alcuni senatori. Il che sarebbe effettivamente avvenuto.

     

    Di là dal racconto mitistorico romuleo, resta il possente significato simbolico espresso dalla figura marziale di Cesare che per eccitare alla pugna i propri soldati li schernisce chiamandoli Quiriti invece di Militi, ma infine – realizzato il proprio compito – s’immortala nelle fattezze e nel regno di Quirino, aprendo la via a colui che avrebbe ereditato la consegna della pacificazione urbica dai miasmi sanguinari di troppe guerre civili: Cesare Augusto, artefice della pax romana ancora oggi solennizzata nella marmorea Ara pacis, segnacolo gentilizio degli Iulii e della funzione “numana” assegnata per via adottiva al giovanissimo Cesare, restauratore della Res Publica retta mediante la mano virtuosa di Fides.