Monte Sibilla (foto Enrico Pighetti via Flickr)

Le prime piogge equinoziali, la funzione cosmicizzante dell'uomo divino, i Vecchi della Montagna

Alessandro Giuli

    Con le prime, fragorose piogge di fine stagione – l’equinozio d’autunno è alle porte! – l’acqua venuta dal cielo s’incarica di rinvigorire la natura sitibonda, aggredita dall’arsura e dall’aridità che dilagano nei cuori umani. Esiste infatti un rapporto diretto tra le modificazioni del clima e le deliberazioni interiori dell’uomo, che avendo origine divina ha facoltà cosmicizzanti, scolpisce montagne, modella paesaggi, attira e allontana presenze invisibili. In altre parole: elevandosi, può collaborare con il respiro della natura organizzato dall’Intelligenza suprema; inabissandosi nell’incoscienza e nella brutalità, può farsi latore di un (apparente) disordine al quale in ogni caso è assegnato un destino provvisorio, non essendo questo caos che un punto di vista, un dettaglio transitorio incapace di offendere nel profondo la perfetta armonia del Cosmo, del rito (dal sanscrito rta, ordine).

     

     

    Uno studioso ormai poco noto, l’orientalista Angelo De Gubernatis, scriveva così alla fine dell’Ottocento: “Quando il latino Jupiter ride nel cielo, tutta la natura è un riso; quando Giove tona o starnuta nel marzo, si ritiene quel primo starnuto di Giove un buon augurio per la campagna; Jupiter viene celebrato come imbiricitor o pluvius, come frugifer e liber; ma s’annuncia specialmente col fulmine e col tono; onde si venera pure dai Latini un Giove fulminante ed un Giove tonante… il Giove primigenio latino rassomiglia assai più all’Indra pluvio, tonante, vedico, invocato come datore di ricchezza, come liberatore di vacche, come sprigionatore di acque benefiche, come benefattore della terra che al multiforme Zeus ellenico, ricco di tanti ornamenti epici, e mescolato a tante vicende eroiche, a cui il genio artistico de’ Greci attribuì nuove forme eleganti. Il Giove latino era un padre luminoso celeste che apriva col fulmine tonante la serie delle opere agresti, che con le piogge fecondava dal cielo la terra. Jupiter era un Dio Padre, ossia un Luminoso Padre, un Padre Cielo” (“Roma e l’Oriente”, 1899), Ma come può, l’uomo, essere all’altezza del Cielo? Ne abbiamo già accennato, di recente: anche l’uomo reintegrato nella sua origine divina, il vir, sorridendo, fa sorridere il mondo intorno a sé; e può evocare acqua benefica, rugiade d’ambrosia, fuochi che scaldano la vita nascente o irraggiano i loro barbagli sulla notte dei tempi.

     

    L’uomo è – in potenza, in latenza, il piccolo Jupiter – Vediovis, il puer senex – e “Jupiter latino incominciò come Lucetius… Luce-Padre; e, come tale, il Giove chiaro non vegliava soltanto ai giorni chiari, ma anche alle notti chiare, ai plenilunii. Questo Giove padre poi presiedeva ancora ai dodici mesi dell’anno agreste, rappresentati come suoi assistenti, quasi suoi scudi o ancilia, o sezioni dell’anno, che si credevano caduti dal cielo al tempo di Numa, e rispondono bene ai dodici fratelli Arvali, a ciascuno de’ quali doveva spettare la vigilia sopra alcuna operazione agreste mensile” (De Gubernatis). Similmente opera il Paterfamilias, il DamPati vedico (signore della casa o dam: domus), guardiano dello Zodiaco gentilizio, vegliando sul clima domestico, sui giorni assolati e sulle notti roride, per il tramite della Materfamilias cui trasmette la fiamma avìta e affida la funzione di Vesta. L’insieme “duodecimale” dei Patres, guidato dal Gran Veglio (il retto discernimento, il Pater Patratus) forma il Consiglio che, reggendo la Civitas, riflette sul piano terrestre l’ordine maestoso dei Numi.

    Un esempio parlante, e molto arcaico, di quel che andiamo dicendo si può trarre dai luoghi della Sabina offesa dal recente terremoto. Lì dove oggi la mano insipiente dell’uomo moderno fallisce perfino nella costruzione di opportuni ripari per gli sfollati esposti all’azione insindacabile del Numen Pluvius. Cito una volta ancora Cesare De Bernardinis (“MA-TRV”, 1932): “Sul Santo Giogo, dal quale ogni mattina il Sole, il Dio, si affaccia su la sottostante pianura, radioso, andarono ‘I Vegli’ ad adorarlo e studiarlo e, come il Sole spargeva il bene, anche loro, a sua imitazione, facevano il bene e regolavano le migrazioni… Col crescer delle cognizioni si rinsaldarono e perfezionarono i sentimenti morali [il mos maiorum] e, primo tra tutti, il vincolo e l’ordine della famiglia. I Vegli custodivano il fuoco, strappato ai vulcani, che, come il Sole, spande il suo calore benefico e quindi sacro fa il focolare [Focus Larum, Fuoco degli Avi divinizzati], base e simbolo della razza italica. Con cura assidua ed incessante, i Vegli aumentarono, svilupparono ed insegnarono le loro cognizioni… Maturavansi i fati. L’ora dei contatti si avvicinava, la prolificità della razza produceva i suoi effetti e la famiglia cresceva sana e robusta, fondata su la monogamia e consacrata dal matrimonio, nell’amore e nel rispetto.

     

    E le famiglie, sempre più numerose, si aggruppavano secondo le parentele e i bisogni e nuovi luoghi venivano occupati… Con la famiglia e con l’ordine da tenersi nelle emigrazioni, per portare a buon porto il numeroso bestiame, si sviluppa il senso della disciplina, della gerarchia, della guida unica cui obbedire. E nella famiglia è il padre; nella comunità è il più rispettato dei Vegli quello che dovrà reggerla, sarà il suo Re e detterà le norme da seguire senza discussioni… L’Iddio, il Sole, il maggiore degli astri, comanda alla notte e al giorno, riparte, regola la vita degli uomini e degli animali e così doveva fare chi, studiandolo, era venuto in contatto con lui e, appresene le leggi, ne era divenuto il rappresentante in terra. Nell’intimo contatto con la natura, la fantasia non giocava che quel tanto che era necessario e non creò una faragine di dèi, che fu poi un’importazione straniera, mai qui accettata. Questo culto, impersonato nei Vecchi della Montagna, nei Vegli, ha sfidato i millenni e dura tutt’ora”. Così è.