I pianeti Venere, Giove e Marte

Giove Tonante al Circeo, Giove Statore in noi. Con un piccolo intermezzo sciamanico

Alessandro Giuli
Al Circeo ha tuonato, qualche giorno fa. Un brontolio sordo, lievemente grigio ma in fondo benevolo, mezzo labbro in giù e l’altro in su; e poi appena un accenno di pioggia, quasi una tensione che stava lì lì per scaricarsi ma poi ha rinviato l’appuntamento.

Al Circeo ha tuonato, qualche giorno fa. Un brontolio sordo, lievemente grigio ma in fondo benevolo, mezzo labbro in giù e l’altro in su; e poi appena un accenno di pioggia, quasi una tensione che stava lì lì per scaricarsi ma poi ha rinviato l’appuntamento. Come a dire: la canicola ha i minuti contati, la stagione estiva s’incammina verso la sua annuale senescenza, ma voi godetevi ancora il sorriso del cielo. (Se è per questo, il cielo sorride anche quando piove o grandina o nevica, il cielo sorride sempre, e il tempo non è mai “brutto” come dice l’uomo: il tempo, il clima, è se stesso, consapevolmente impegnato a perpetuare un ordito armonico). Questa tensione, questo sforzo intenso e sereno (e che quindi sforzo non è), possiamo chiamarlo Iuppiter Tonans, il Giove Tonante cui Augusto dedicò un tempio in Campidoglio alle kalendae di settembre nell’anno 22 prima della presente èra. L’imperatore seguiva la traccia sapiente del re Numa Pompilio, il quale ai suoi tempi aveva consacrato il Tonans sul colle saturnio: “La voce imperiosa, autorevole dell’Auctor Fulgureus, del legislatore e garante della Giustizia, Tutor della provvida Res Publica, la voce del Tonante, il suo brontolare, un monens continuus strepere, sull’Urbe e sui suoi Cives. Suprema, immortale consapevolezza, vivente coscienza del Cielo: avita, ridestata consapevolezza, vivente coscienza del Vir” (così la voce dei Patres).

 

Scrivo queste righe nel giorno dedicato in antico a Giove Statore, Iuppiter Stator, l’Asse che non vacilla: fermo restando il dio, fermo restando l’uomo. Qui non siamo distanti dal Tonante, poiché sempre si tratta dell’intervento d’una “superiore entità che decida da uno stabile seggio, che provveda con imperscrutabile decreto; una volontà che agisca con severità e rigore contemperati da una suprema divina giustizia. Alla consapevolezza del Cielo, vasta e luminosa, folgorante, deve corrispondere la consapevolezza dell’Uomo, che ha maturato in sé il Cielo”. E questo accade nella stabile ripetizione dei cicli naturali. In queste ore il Cielo viene in soccorso della Terra sitibonda, per vincere l’arsura e restituire linfe alla vegetazione. Acque nitide e pure rimuovono i ristagni paludosi, “l’atmosfera in moto si magnetizza, affascina, apporta benessere e anche nell’uomo si ristabilisce l’equilibro psico-fisico”.

 

Ma non a tutti riesce tale operazione di riequilibrio, che tocca il suo punto apicale in occasione degli equinozi (quello autunnale è dietro l’angolo). E torniamo al Circeo, isola-promontorio dalla favolosa storia, dimora della dea-maga Circe: Signora degli animali, sorella di Medea e Angizia, terrifica o mite, acqua corrosiva che disvela la natura inferiore degli uomini indegni e al tempo stesso innalza chi abbia attinto al ricordo di sé, del divino in sé stesso (in questo caso la si omaggia come Venere, casta forza attrattiva che conduce al Cielo di Giove). Torniamo al Circeo per riportare alcune significative parole di un giovane senza nome ma dai tratti sciamanici il quale, grazie alla frequentazione di questo centro polare, si è spinto sino alla soglia della comprensione profonda ma poi, per limiti suoi o per fatalità (le due ipotesi non confliggono, invero) non sembra essere andato oltre. E si è spezzato. Un suo manoscritto è tutto ciò che rimane di lui, l’ha rielaborato Paola Gloria Capanna nel suo “Il Monte di Circe” (Torino, 2000). Eccone alcuni brani in cui si alternano acute intuizioni e fantasticherie.

 


Il Circeo


 

“… la vetta di Circe svanita in piogge nebbiose… dea temibile / parla con voce umana / lingua immortale degli dèi / forse Venere parla solo col suo respiro / respirare profondo / o affannoso / respiro caldo / Ermes parla col battito delle ali sui calzari quando è irato / parla battendo il piede / suono di piedi nudi su legno… Circe figlia del Sole e di Perse / figlia di Oceano / mare esterno contrapposto al mare interno… Okeanòs fiume circonda la terra / rifluendo su se stesso… corro ancora dentro i sentieri nascosti e sono ancora un animale selvaggio / come quando ho ripercorso la strada del Circeo verso le mura e salendo tra rovi mi sono trasformato in cinghiale… la voce degli dèi: voce di una campana d’oro e il suono unisce il cielo e la terra / al mondo sotterraneo / come Hermes…”.

 

E ancora: “Dives Solis Filia Circes. La montagna ora è tutta nella mia finestra / avvolta da nuvole e nebbie trasparenti / evanescente irraggiungibile eppure presente… il bosco è sempre aperto / basta entrare con fiducia / abbandonarsi alle erbe / chi entra con paura si perde… oggi da queste rupi grigie ho veduto come nasce l’alabastro: dove la roccia si spezza dentro è ruggine / dentro la ruggine è alabastro … nel mio essere sprovveduto è stato il monte Circeo a dirmi che nei luoghi impervi non può cadere chi è già a terra / aderente alla terra… il luogo si trasforma in fonte inesauribile di forza se l’uomo riesce a penetrarvi… le pietre di Circe prendono il colore di tutto quanto le tocca… il cielo e la terra hanno più immaginazione di noi… questo penetrare nel luogo mi dà capogiro / tentare di conoscere ogni particolare della montagna / una sola parte infinitesimale di terra è inesauribile / ogni pietra ogni albero ogni erba ogni fiore / e conoscere la pioggia da cui ero separato / ho incominciato a muovermi sotto la pioggia seguendo le orme dell’uomo-uccello di Circe che non teme nessuna tempesta… de minimo / e immenso… mettere radici: non allargarsi ma penetrare nel profondo”.

 

Non so se il nostro anonimo, prima di spezzarsi, sia infine riuscito a cogliere un barbaglio di consapevolezza indistruttibile, dopo aver sperimentato la conoscenza della terra animata e osato il volo dell’uomo-uccello (Picus Martius?), simile all’affilato vento cilestrino evocato dallo zufolo di un pastore.

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