La divinazione pantèa nei pagi abruzzesi, l'equivoco spiritualista dei moderni eruditi democratici

Alessandro Giuli

    Nel giorno consacrato alla festa dei Luci, le radure sfavillanti di luce nei grandi e piccoli boschi sacri dell’Italia ancestrale, rimaniamo per un poco ancora nella terra d’Abruzzo (la settimana scorsa eravamo a Campo di Giove, pagus dei Peligni incastonato sotto la Majella, koinè di montanari fieri, rocciosi, di rara generosità). Ci spostiamo verso Scurcola Marsicana, dunque nella terra dei Marsi, prosapia del Mamerte italico. In questa zona, oltre un secolo fa, un misterioso personaggio di alto rango che si firmava N. R. Ottaviano (N. R. sta per Nobile Romano, vezzo d’altri tempi e d’altre anime) andava girando per indagare consuetudini e retaggi pagani sopravvissuti sotto la patina del folclore. In un prezioso scritto intitolato “La divinazione pantèa”, datato Roma 10 luglio 1910 e pubblicato sulla rivista ermetica Commentarium, Ottaviano si dedica alle diverse forme divinatorie ancora presenti negli anfratti ascosi e solitari dell’anima popolare: non è l’oscuro fatalismo asiatico aborrito dai Patres romani; già in apparenza è qualcosa di molto diverso: “… un immenso folk-lore” formato da “tutti i piccoli processi di magia elementare e naturale che praticati dagli ignoranti danno risultati di divinazione approssimativa o precisa che nessuno dei tanti filosofi saprebbe spiegare o riprodurre o far di meglio”. E poi, in una noticina a piè pagina: “Negli Abruzzi ho trovato maggior numero di pratiche di stregoneria, e nella Campania e nella Basilicata ricordi pagani della divinazione sotto ogni aspetto interessanti”. Buon viaggiatore, il nostro Ottaviano, aggiunge: “I pastori dell’Abruzzo aquilano hanno sempre in mezzo ad essi qualcuno che ha fama di conoscere l’avvenire…”.

     

    “Il Signore che l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna”, sentenzia il vate Eraclito (la sola traduzione di cui mi fidi è quella magistrale di Angelo Tonelli pubblicata da Feltrinelli ed è sempre sulla mia scrivania), e così la natura tutta, cioè Pantea. Ma come fanno i pastori abruzzesi e i loro colleghi sciamanici delle campagne nostre, a sintonizzarsi per legge d’analogia con i segreti della natura animata per coglierne fruscii e sussurri, guizzi e lampi, e decodificarli in messaggi sibillini? Il segreto è nella purezza, nella solitudine, nella disciplina. “Il famoso mistero della solitudine che prelude alle potestà magiche in uomini di nessuna preparazione – prosegue Ottaviano – si determina allo stato di immunità psichica di tutti i solitari. La vita di santità di alcuni monaci salmodianti è identica a quella di un contadino che viva in perfetta solitudine senza pregare e di un marinaio che, lontano dal consorzio civile, passi il suo tempo alla pesca”. In poche parole costoro, liberi dal gravame dell’erudizione dottorale e dalle fumisterie dell’occultismo moderno, sviluppano un’attitudine, una “predisposizione naturale alla audizione o lettura di questo Grande Pane o Dio universale loquente, che è la manifestazione intelligente armonica della natura viva”. Fedele al suo lignaggio romano, Ottaviano si addentra in profondità e accarezza la magia di Pan con una padronanza, diciamo così, operativa. Mi limito a riportare un’altra esortazione a non trascurare certe latenze vive ancora oggi, e a non disperdere le proprie energie in letture compilatorie, perché Pan non si svela agli eruditi: “L’evocazione di questa intelligenza della natura è la chiave della divinazione artificiale e naturale dei Romani, così chi sa intendere questa eloquenza delle forme diventa il facile vaticinatore augurale. Per trovarsi nell’aura delle forme evocatorie di magia basterebbe andare nei siti d’Italia nei quali l’anima pagana con tanti secoli di cristianesimo sovrapposto si può dire ancora intatta”. Il lettore potrebbe cominciare proprio dall’Abruzzo, invece di smarrirsi nei vortici dell’occultismo sincretico e sentimentale, tendenza teosofica per intenderci. Ottaviano bersaglia in particolare il “Signor G. R. S. Mead”, autore di uno studio su “Cristianesimo Gnostico che è un’ottima opera di erudizione scritta da un profano allo Gnosticismo e muta alle anime assetate di verità”.

     

    Chi fosse questo “Signore”, George Robert Stow Mead, ce lo ricorda oggi il caro Miska Ruggeri (aquilano!) nell’introduzione a una breve raccolta di suoi articoli appena pubblicata da Mimesis: “L’arte del simbolo come strumento di conoscenza”. Mead (1863-1933) era un inglese affiliato alla Società Teosofica fondata da Madame Blavatsky, dalla quale uscì infine per polemiche religiose, ma non prima d’aver servito la sua causa con libri, articoli e conferenze che influenzarono anche poeti come William Butler Yeats e studiosi della psiche come Carl Gustav Jung. Lo gnosticismo fu un suo cavallo di battaglia, ma, declinato secondo la visione teosofica che mescolava simbolismi alti a fantasticherie sull’auto-ammaestramento derivate dall’universalismo superstizioso mediorientale, fu anche un Cavallo di Troia per inquinare la verità genuinamente pagana dell’iniziazione antica. Ottaviano fu in fondo benevolo col Mead, per lo meno fino a che il Mead non mostrò d’essersi offeso per quel passaggio che lo riguardava nello scritto sul dio Pan. L’inglese replicò sulla rivista dei teosofi romani (Ultra) e Ottaviano controreplicò, definitivo, su Commentarium, da Scurcola Marsicana, 25 ottobre 1910: “… io credo, dice, che evolvendo il maestro comparisce in noi. Questo non è iniziarsi né diventare adepto, ma santo, che è cosa relativa al concetto evoluzionista dell’anima mistica in religione… quindi il Mead non sa la gnosi né l’Iniziazione che sono sorelle germane. L’iniziazione, la gnosi, il secreto alchimico sono lo stesso serpente che il cristianesimo ha sempre combattuto, posciacché sul sacerdozio iniziato prese il sopravvento la marmaglia filosofica che Giuliano l’Apostata vedeva trionfare come una alta marea d’ignoranti sul sapere…”. Quel sapere che è prerogativa aristocratica maturata sul campo, e che ci rivela nobili tanto i Viri blasonati come Ottaviano quanto i pastori abruzzesi o sanniti ancora capaci di ascoltare l’anima loquente del Grande Pan senza per ciò fondare equivoche società spiritualistiche.