La fame ardente di Moloch, punico divoratore di fanciulli debellato dalla severa rupe del Campidoglio

Alessandro Giuli

    Non stupisce affatto che i giornali parlino d’una “gara di solidarietà” fra italiani per aiutare Favour, la bimba peregrina di nove mesi sbarcata a Lampedusa e orfana della sua giovane madre. Gli italiani sono un popolo ancora forte e generoso, conoscono il valore della vita e si sgomentano alla notizia delle altrui morti acerbe che provengono dal mare, olocausti di esseri disgraziati nati nel continente subsahariano e sacrificati dai nuovi sacerdoti di Moloch, i tenebrosi scafisti punici stanziati sulle coste del nord Africa. Sono loro i responsabili diretti delle attuali ecatombi, guai a concedere spazio a chi cerca d’inoculare il senso di colpa entro il limes italico. Leggete queste parole di Sabatino Moscati, lui fu intimo alle genti puniche e così descrive la “roccaforte dei Cartaginesi in Sicilia”, l’isola di Mozia: “Là si passavano per il fuoco i fanciulli, al fine di ottenere con la rinunzia a ciò che si aveva di più caro il favore degli dèi (o di placarne l’ira)… Il luogo del sacrificio, lo vediamo coi nostri occhi, era un’area a cielo aperto, recintata da muri. I sacrifici si effettuavano su altari. Dopo i sacrifici, le ossa bruciate erano collocate in urne di argilla e sepolte nel terreno. Accanto alle urne, a memoria del rito e in omaggio alla divinità, venivano poste delle stele di pietra, recanti simboli o immagini divine e talora iscrizioni votive”. Destinataria dei fanciulli, per il tramite del fuoco infero (Moloch), era Tanit, abissale dèmone ginecocratico “che per il sacrificio divenne anche dea della morte”. I propagatori di morte, gli orridi infanticidi punici, sono stati sconfitti dall’Urbe e condannati all’infamia nelle parole del vate D’Annunzio, che ebbe la visione dei primogeniti “arsi nel bronzo insaziato di Moloch… creatore vorace! Fame ardente, ruggente… Eccoti la carne più pura! Eccoti il sangue più mite! Karthada ti dona il suo fiore”. Ma ecco che la Roma dei Patres si erge in armi e abbatte il nemico del genere umano “con i suoi idoli mostruosi… con la sua tristezza e cupidigia… con la sua smania d’avventura senza eroismo” (Cabiria, 1913).

     

    La visione del macabro ritualismo cartaginese deve perciò rinsaldare la nostra ancestrale consapevolezza, raccomandata da Giovenale – Maxima debetur puero reverentia – e cesellata con sapienza dal vate Virgilio: Inizia, pargoletto, a conoscer la madre dal sorriso / (ebbe la madre per lunghi mesi le nausee) / inizia, piccino; al nato cui i genitori non sorrisero, / né della mensa un dio, né lo degnerà del suo letto una dea (Bucoliche - IV).

     

    Non basta, però, soddisfare l’astratto genio della specie attraverso la riproduzione biologica, occorre alzarsi oltre il fatto di natura, spiritualizzarlo nell’Amor con Honos e Virtus. E’ meritevole – scrive ancora Giovenale (Sat - IV) – che tu abbia dato alla patria e al popolo un novello cittadino, purché tu lo abbia reso degno della Patria e di buon esempio per il popolo. Il modo in cui tu lo educherai e i costumi a cui lo indirizzerai sarà di capitale importanza: siano i costumi onesti e sobri e non esempi di avidità. Sia la famiglia ben costituita, secondo natura e retta dalle sane leggi date dallo Stato. Vien da natura che i vizi coltivati tra le mura domestiche ci corrompano più rapidamente e più intimamente per l’autorità di colui da cui ci viene l’esempio. Se si offre esempio di smodato amore per i beni materiali, avidità di ricchezza accumulata disonestamente (per fraudes patrimonia conduplicare) pueros producit avaros. Lasciato senza freni il carro, inutilmente tenterai di fermarlo, continuerà nella folle corsa eccedendo la meta destinata. E si ricordi anche l’austero Tacito, nel Dialogus de oratoribus: in passato ciascun figlio, nato da madre casta, non veniva educato nella stanzetta d’una nutrice prezzolata, ma nel grembo e al seno della madre, il cui vanto principale era di sovrintendere la casa e mettere in serbo i figli. Si sceglieva poi una parente maggiore, di provati e rispettati costumi, cui affidare tutta la prole d’una stessa casa; e in sua presenza non era ammesso pronunciare parola turpe né assumere comportamenti disonesti. E non solo gli studi e le occupazioni, ma anche gli svaghi e i giochi dei fanciulli costei temperava, con la sua aura santa e vereconda. Così accettiamo che Cornelia madre dei Gracchi, così Aurelia di Cesare, così Azia di Augusto, presiedessero alle loro educazioni ed elevassero i figli come primi fra i pari rango. 

     

    Massimo riguardo, massima venerazione ai pueri italici così come ai Maiores, così come ai Seniores. E noi genitori a far da ponte. Lo impone il Dio dei passaggi: passum participio di pandere, aprire, forare, avanzare, transitare… Lo impone, attenzione, il Dio lanciatore del pilum, il Dio degli agguati, Vediovis. La Patria attende il suo Vir.

     

    E non ai falsi dèi, non agli idoli mostruosi di una degenerescente civiltà mercantile, non alle superstizioni moderne ci appelleremo per richiamare il Vir: ritorniamo alle nostre origini avite e a quel faro di luce perenne che è la romanità, alla severa rupe che è il nostro Campidoglio, invocando con mani aperte e sicure (indigitare) i numi primevi che non abbisognavano d’uno scultore greco o, peggio, d’un tetro rito esotico (procul esto!) per manifestare la loro presenza nativa, la loro benefica e attiva forza di luce.

     

    Era costume degli antichi romani slattare e insieme svezzare dalla veneranda culla della dea Cuba il puer, o anche la puellula, onde iniziassero con Fabulino a parlare e a star ritti con Statulino. E’ un momento importante, questi due Geni divini urgono dentro di lui, lo incitano; siate presenti, apparite a lui nella figura di queste entità divine e dite: “Sta’ ritto, figlio, vieni!”. E prendete, sorreggete nella vostra la pargoletta mano.