La natura vivente, il sacrificio del fuoco, l'epoca ripugnante e l'azione impeccabile del guerriero

Alessandro Giuli

    Chi ci invita a trascurare le cure per gli animali domestici, a beneficio di un astratto umanitarismo, è in difetto di conoscenza. Se non in mala fede (mala fides=tradimento consapevole della dèa Fides, la divinità della forza che fida, cioè lega e unisce in vincolo i pari rango). Chi condivide il cattivo invito, in genere, considera la natura vivente come una sostanza materiale creata a proprio uso e consumo, ritiene logico abusare di piante e animali, inquinare l’acqua e l’aria, depredare la terra e rumoreggiare su per il cielo: insomma desertificare l’inesausta riserva di energia che l’astro luminoso offre sponte sua all’uomo, il dio mortale vocato a custodirla sacrata com’è. Il loro è il velenoso, corrosivo scorrimento d’un assurdo aberrante esistere che disgrega il mondo e ne frantuma il senno.

     

    A costoro, ai desertificatori e agli sconsacratori, rispondiamo con un passo tratto dai Satapatha Brahmana, testo in prosa dei cugini hindu successivo all’età dei primi Veda stillati in versi e precedente alla speculazione già decadente, perché filosofica, delle Upanishad. A parlare è il dio Varuna, che si rivolge al figlio Bhrgu dopo avergli indotto tre visioni nelle quali un uomo fa a pezzi un altro uomo e ne divora le carni: “Coloro che, in questo mondo, senza offrire l’oblazione quotidiana al fuoco, senza così sapere, fanno a pezzi gli alberi e li gettano nel fuoco, ebbene, nell’altro mondo, gli alberi prendono forma umana e li mangiano a loro volta. Se invece si getta nel fuoco la legna da ardere in conformità al rito, vi si sfugge, si è liberati”. La stessa conseguenza – lo smembramento e la dispersione – tocca a chi uccide animali e piante irritualmente, per cibarsene in modo empio, negligendo la legge del do et des; quella circolarità rituale per cui, ad esempio, il nume dell’Albero – che nel regno immanifesto è l’archetipo d’ogni molteplice varietà arborea –, se debitamente onorato, lascia che l’uomo sacrificante e pio s’appropri del calore immanente a quel generoso accumulatore solare chiamato legno. Idem per gli animali e le piante. In ogni cane, salvo casi di snaturamento irreversibile, è possibile scorgere i tratti di quel “Cane assoluto” che è già un lupo. Conosco una venusta barboncina che si crede Eleonora Duse, non ci si può far niente ormai; ma di recente ho anche ri-conosciuto nell’Umbria tiberina l’esemplare di un incrocio canino il quale, rettamente trattato da uomini e donne consapevoli, sta risalendo li rami suoi fino all’archetipo: i suoi ululati sono adesso più-che-canini…

     

    I cugini indiani ci dicono che “con il sacrificio gli dèi sono riusciti in tutte le loro imprese… con il sacrificio hanno conquistato la sede celeste… e questo sacrificio perdura ancora oggi tale e quale gli dèi l’hanno compiuto”. I mortali non devono fare altro che ripeterlo, compiendo il medesimo atto primordiale – in principio era l’azione! – affinché nel rito (dalla radice Rta=ordine, armonia) il sacrificante, il sacrificato e il destinatario del sacrificio coincidano in un solo quid. Non sono concetti speculativi, questi, ma eventi (eventus docet!) e princìpi ben noti ai nostri Padri Ausonii.

     

    Sacrificio del fuoco, si diceva sopra, ovvero quel sacrum facere nella fiamma interiore che solo può renderci simili agli dèi: “L’uomo prende una decisione con il cuore; di là, essa passa al respiro, dal respiro al vento, e il vento comunica agli dèi com’è il cuore dell’uomo” (Sat. Br.). Ma “gli dèi non entrano in relazione con una persona qualunque…”. E’ necessario anzitutto il sacrificio dell’io profano e superbo, almeno quanto illusorio, prigioniero dell’orgoglio che apre le porte alla rovina, all’idolatria, alla cecità del vile conflitto. Questa forma di sacrificio è una guerra grande offerta alle nature guerriere, il cui modello noi identifichiamo nel padre Enea, la cui pietas, scrive Cicerone, è “fondamento di tutte le virtù” perché “ci induce a osservare il nostro officium verso la Patria, i genitori e gli altri affini per sangue”. Più prosasticamente: “Enea è insigne per la sua pietas, il suo eroismo è anzitutto quello di chi si fa strumento nelle mani di un’istanza superiore, di un destino che si serve di lui per realizzare i propri piani: l’eroismo di chi sacrifica (!) il suo presente a un futuro che non vedrà ma della cui grandezza, e soprattutto della cui necessità, è persuaso fino in fondo. Un uomo che accetta di sacrificare (!!) la sua piccola storia privata perché per suo tramite possa realizzarsi la grande storia, che è poi la storia dell’impero mondiale di Roma” (Mario Lentano, con Maurizio Bettini, in “Il mito di Enea”, Einaudi).

     

    Non è necessario, né forse possibile direi, ripetere le gesta di Enea sul piano storico. Ma che importa? Conta altro, e cioè imitarne l’esempio non transeunte, lo sforzo cardiaco, la maturata attitudine al sacro che gli consente di dialogare con le autorità del cosmo (il fato giovio), riconoscere il nume del Tevere, agire secondo le norme divine degli avi.

     

    Il vero guerriero è sempre sincero e combatte continuamente, quotidie, con se stesso per migliorarsi; in questo non si risparmia. Cura anche il contingente, in ogni dettaglio, ma non se ne preoccupa. E’ sempre pronto a far fronte con premura e senza indugio a ogni accidente senza turbamento alcuno. Si sottopone a prove durissime. Non si lamenta di nulla, accetta tutto, né si duole del giudizio altrui. Non pretende uffici, se non gli vengono affidati da patria necessità; allora sì, s’addossa cure e incarichi. Non brama d’esser capo di bottega. Il vero guerriero è fermo, tenace, impeccabile, saldo, incrollabile. Il vero guerriero è imperturbabile, distaccato, perciò inattaccabile. Il vero guerriero non ha ripugnanze, disgusti, ribrezzi. Il vero guerriero ribalta l’epoca più tremenda, perché è esercitato al dovere di rispondere di tutto, di tutti e quindi di sé stesso. Solitario, unico è il guerriero. Sua sposa la Veglia.

     

    Raggiunta la quale, ora sì, la natura vivente si schiude, parla per simboli e immagini concrete, solidale a chi sappia evocarne le forze arcane e lucenti. Per fare cosa? Per debellare i nemici del divino in noi e fuori di noi, e realizzare il prodigio della cosa una.