Gli storni romani, l'arte divina degli àuguri e qualche analogia con le guerre civili vecchie e nuove

Alessandro Giuli

    Porta fortuna!, era l’esclamazione che fino a qualche anno fa, a Roma, si sentiva rivolgere il malcapitato di turno colpito dall’escremento di un uccello, per lo più piccioni o storni nei mesi ancora miti dell’autunno. Era un po’ seccante, in effetti, però capitava di rado. Troppa fortuna!, si dovrebbe invece dire oggi, osservando la Capitale invasa da chili e chili di guano elargiti con meccanica generosità dai milioni di storni che si sono affezionati ai nostri platani, al nostro tepore fuori stagione, alla bolla caliginosa dei riscaldamenti troppo forti e alla proverbiale insipienza dei governanti cittadini. Se n’è accorto perfino il Guardian, dopo che i mezzi d’informazione italiani – in assenza di notiziole più sfiziose – hanno dedicato così ampio spazio alla grandine quotidiana che incombe sui romani dal crepuscolo serale. Sicché siamo diventati tutti un po’ ornitologi, e in fondo non è male perché conoscere gli uccelli è un po’ conoscere noi stessi.

     

    In queste giornate di festa sarà capitato a molti di “fare gli augùri” e “auspicare” per se stessi e per le persone famigliari un felice anno nuovo. Il verbo auspicare deriva dall’arte di osservare (specio=vedo), per interpretarlo, il volo degli uccelli (aves); e questa arte era prerogativa di uomini saggi e istruiti nelle secrete cose: nell’antico mondo latino avevano il nome di Auguri (accento sulla A), erano riuniti in un collegio arcaicissimo di cui a Roma fu Romolo il più illustre rappresentante. Chi può aver dimenticato la sua visione dei dodici vùlturi (avvoltoi, più o meno) in transito sopra il cielo del Palatino, grazie alla quale il fortunato gemello vinse la contesa con Remo e divenne il fondatore dell’Urbe? Chi è più addentro nella conoscenza della disciplina augurale sa che ogni uccello si fa portatore di un messaggio divino specifico, a seconda del rango, del numero dei consimili coi quali si accompagna, della direzione di provenienza (qui posso dire che il volo da oriente è sempre favorevole, tranne che per le cornacchie, stando agli insegnamenti dei Padri umbri), del verso e dell’ora in cui si manifesta. Lo studioso pitagorico Censorino (III secolo dell’èra volgare) svelò anzitempo che i dodici vùlturi romulei stavano anche a significare come la potenza storica di Roma sarebbe cresciuta (dal verbo augere, da cui Augusto), culminata e poi caduta nell’arco temporale di altrettanti secoli. Esiste poi un inventario assai voluminoso di uccelli più o meno fausti, qui mi limito a ricordare che ancora oggi i più diffidano degli uccelli notturni, spesso confondendo i gufi lagnosi con la civetta (sacra a Minerva) o con i simpatici piccoli assioli che d’estate, quando grilli e cicale digradano nei loro canti e friniti, allietano la mezzanotte delle campagne con l’ipnotico “chiù!-chiù!”.

     

    E’ bene sapere anche questo: fin dall’antico è credenza comune che negli uccelli riviva qualcosa di umano, se non l’anima per lo meno un piccolo soffio vitale degli uomini e delle donne che ci hanno preceduto nel ciclo dell’esistenza. Dopotutto deve esserci qualche ragione se nella lingua latina una sola vocale separa gli antenati dai pennuti: avus/avis. Ma certo c’è antenato e antenato, come dimostra la presenza di aquile, falchi, corvi e altri nobili uccelli sui blasoni delle famiglie più titolate e su alcune bandiere nazionali (lo stemma più completo, poiché raccoglie in sé il mistero dei quattro elementi e dell’etere cosmico, è quello di Ottaviano Augusto: la Sfinge alata). Insomma anche per gli uccelli vale l’inesorabile legge di natura che non conosce eguaglianza, come sentenzia Eraclito: uno per me vale più di diecimila se è il migliore. Già ai tempi del filosofo efesino (VI-V secolo dell’èra volgare), occorrevano diecimila uomini comuni per eguagliare un àristos, un uomo differenziato, un risvegliato. Figurarsi adesso. E con gli uccelli? Quanti storni serviranno per fare un’aquila? Che è come chiedersi quanta moltitudine occorre a pareggiare le qualità di un re. Il fatto è che l’ordine di una città, di una res publica, così come l’ordine dell’uni-verso, necessita sia dell’uno (il sovrano) sia degli altri (i più, le moltitudini). Se non possiamo pretendere che un’aquila venga a impuzzolentirsi in una metropoli per cacciare gli storni (al massimo è affare per gheppi), dovremmo contenere noi gli effetti dei pennuti plebei.

     

    Siamo così tornati sul Lungotevere di Roma, dove scorrono guani e imprecazioni. Gli storni hanno le loro responsabilità, d’accordo, ma fino a un certo punto. Trascorrono le loro mattine fra gli ulivi, per lo più in Sabina o nell’Etruria veiente, ingurgitano le olive rimaste e poi, al primo soffio ghiacciato, vengono a digerire fra i rami accoglienti del loro letamaio preferito. Quindi scaricano giù noccioli e liquidi in quantità, incorggiati dalle buone temperature che li inducono addirittura a nidificare, loro, migratori nati. Come noi, Plinio il Vecchio ne ammirava i disegni sferici e oblunghi realizzati durante il volo in formazione, gli improvvisi scarti impressi nei movimenti per sfuggire al falco pellegrino, predatore naturale. Gli studiosi dicono che il primo storno censito è quello che nell’inverno 1925-’26 scelse come dormitorii il cortile di Palazzo Venezia e gli alberi di Villa Torlonia, che erano rispettivamente il luogo di lavoro e la residenza privata di Benito Mussolini. Siamo dunque negli anni in cui il fascismo cominciava a mostrare il suo volto clericale e liberticida, ammiccante verso le peggiori suggestioni della società di massa, prologo di sventure e guerre civili a venire. Quasi che gli storni, frammenti d’anime inferiori e discordi, rievocassero fin da allora le squadracce avverse di Mario e Silla. Basterà, oggi, reclamare dal Comune di Roma l’uso del “richiamo d’angoscia” per liberarcene, o non dovremmo anche onorare con discernimento la dea Concordia?