Che collegamento c'è tra i primi freddi, la purificazione delle armi e la Rampa di Domiziano? Apollo

Alessandro Giuli

    Ieri a Roma ricorreva la festa dell’Armilustrium, che in realtà non è proprio una festa ma una cerimonia sacra di fine stagione. Con l’avanzare dell’autunno, le armi di guerra tacciono e vengono purificate dai sacerdoti di Marte in vista dell’anno che verrà, e che comincerà per l’appunto a marzo, nel mese che prende il nome dal nume tutelare dell’Urbe, il padre dei divini Gemelli. Il sacerdozio di Marte era presieduto dal suo Flamen – immagine vivente del dio e colui che ne inflamma l’agire fra gli uomini – secondo per importanza soltanto al collega gioviale, il Flamen Dialis. E’ un giorno importante, quello dell’Armilustrium, perché non si può combattere oltre la giusta misura, bisogna saper fermarsi al momento giusto. Il momento giusto cade intorno all’equinozio d’autunno, fine settembre, al culmine del supremo equilibrio solare, raggiungendo una completa equanimità simboleggiata dalla costellazione della Libra. In questa fase comincia un raccoglimento speciale. L’astro diurno s’incammina nella sua curva discendente, in attesa del buio invernale, la sincope in cui muore Saturno (solo in apparenza!) ma subito trionfa la luce solstiziale. Insomma adesso è pace, lo dice anche il mare che va ingrossandosi di onde schiumose e diventa innavigabile alle triremi rostrate (in antico si usava addirittura serrare i porti, salve rare eccezioni). Nel linguaggio del mito si dice che il nume solare, Apollo Delfinio, lascia il suo santuario di Delfi – nella Focide, ma solo dal punto di vista topografico, nell’essenza Apollo è luce splendente che irradia dal cuore che arde – per migrare nelle terre di Borea trainato da un carro di bianchissimi, nivei cigni. Anche qui, le indicazioni geografiche non vanno prese necessariamente alla lettera: Borea non è tanto l’estremo nord, è piuttosto un luogo sopraelevato, una cresta montana e una vetta dell’anima. I nostri antichissimi avi italici erano detti Aborigeni perché abitavano i rilievi montani sfuggiti al cataclisma atlantideo, e ancora oggi l’appellativo non esattamente vezzeggiativo di “burino” viene rivolto a coloro che abitano lontano dalla città, sui Colli Albani, i “rustici cuori” di cui scrisse Properzio. Il cigno è un volatile dalla bellezza sovrana e intangibile, Kyknos è figlio di Apollo Iperboreo e di Hyria, la terra solare, l’isola sacra delle genti che non conoscono l’oscurità. Uccello migratorio, ci segnala più e meglio di qualunque meteorologo l’avvicendarsi delle stagioni. Se non ci credete, sappiate che pochi giorni fa gli scienziati inglesi hanno avvistato un cigno proveniente dalla Russia, giunto in una riserva nella terra dei Britanni per sfuggire ai primi morsi del freddo siberiano. I ricercatori hanno deposto i loro algoritmi e si sono affidati al buon senso dei padri, alla saggezza degli antichi adagi bucolici: “Il cigno porta con sé la neve, è il suo compito” ed è – dicono sempre gli studiosi inglesi – il segnacolo di un inverno che s’annuncia anzitempo  promettendo un lunghissimo cielo terso abitato da venti gelidi, poi ghiaccio. Chissà. Mi piace che il mondo dei nativi digitali, così infantile nel suo tripudio di tecnologie sofisticate, così prigioniero della sua ansia previsionale – dal meteo alle oscillazioni delle Borse, è tutto un rimestare compulsivo nel calderone degli eventi futuri –, si ritrovi poi a spiare il candido battito d’ali di Kyknos, animale totemico del dio che, secondo la sentenza del sapiente Eraclito, “non dice e non nasconde, accenna” mediante sentenze oracolari da interpretare con l’ausilio di “coloro che sanno”, i suoi ierofanti (simboleggiati dai Delfini).

     

    Uno dei ritratti più esemplari di Apollo è stato rinvenuto nel 1721 all’interno della Villa di Domiziano a Sabaudia, è il così detto Apollo Kassel (dal nome della cittadina tedesca dell’Assia settentrionale nel cui museo, il “Fridericianum”, è custodita la statua apollinea fin dal 1779). Si tratta di una particolare rappresentazione, copia romana di un originale greco attribuito all’eccelso scultore Fidia, nella quale il sempre giovane dio appare un po’ più robusto del solito, la muscolatura ben definita, i boccoli che scendono morbidi e intrecciati sulle spalle. Apollo stringe nella mano destra l’arco, degno attributo del dio lungisaettante che mai si degrada nel corpo a corpo ma colpisce da lontano, con calma e saettante precisione. Ma la specialità è un’altra: nella mano sinistra, come ci ricorda Pausania, tiene una cavalletta e da ciò deriva il nome di Apollon Parnopios o “delle cavallette”. Il geografo greco spiega che gli Ateniesi, colpiti da una sciagurata invasione di cavallette, chiesero soccorso al dio e furono ascoltati: Apollo allontanò gli insetti funesti prima bersagliandoli coi suoi dardi infuocati (l’estate!), poi “sorprendendoli con un freddo improvviso” (l’inverno!) e liberatorio. E’ facile scorgere nelle cavallette il simbolo di presenze infestanti e malsane, come i topi del resto, con i quali Apollo mostra una certa confidenza in ambito ionico (ma non si può dire troppo, qui).

     

    Non deve stupire che l’imperatore Domiziano ospitasse quella statua apollinea nella sua residenza estiva. Dai tempi di Augusto, il palazzo imperiale sul Palatino confina con il più importante tempio di Apollo, appannaggio gentilizio della gens Iulia e sede cultuale della res publica. E proprio domani la Soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo nazionale romano e l’Area archeologica di Roma svelerà per la prima volta al pubblico la Rampa monumentale che collega il Foro ai palazzi dei Cesari sul Palatino, un percorso sacro, sotto volte monumentali che vanno dai nove ai dodici metri. Si dice che questa sarà la nuova sede dell’Antiquarium, e ospiterà le statue dei Dioscuri trovate nel santuario di Giuturna. Coincidenza (?) felice, un bel giorno per Roma e un modo opportuno, in vista dell’inverno, per salire sul colle romuleo dove il figlio di Giove e Latona ispira canti di gioia perenne.