Gaia, Camilla e il populismo giudiziario
Nella condanna, aggravata di tre anni, di Pietro Genovese c'è un surplus di coinvolgimento emotivo. E l‘idea, pessima, che le sentenze debbano dare l'esempio. Ed essere risarcimenti morali. Un vulnus alla giustizia che si aggiunge a quelli di una vicenda tragica
Le vite di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, travolte da un’auto a Roma esattamente un anno, fa non torneranno. Ma che abbiano ricevuto giustizia dalla legge, con i loro genitori, è un bene. L’altra vita spezzata è quella di Pietro Genovese, che quell’auto guidava. Si può pensare che avesse già ricevuto la parte più consistente della sua pena: il futuro “drammaticamente buio” che da quella notte lo insegue. Ma di certo la condanna che gli è stata inflitta dal tribunale di Roma è meritata, è secondo la legge. Ciò che fila meno lineare è la cifra, otto anni. Non per l’entità, non sta a noi stabilirlo, avrebbero potuto essere anche il doppio. E’ il modo in cui ci si è arrivati. Il pm Roberto Felici aveva chiesto cinque anni; il gup Gaspare Sturzo ha aumentato la condanna di tre. Riportano le cronache che mentre leggeva il dispositivo “si è commosso. La voce era strozzata”. Ovviamente nulla vieta a un giudice di commuoversi. Ma la sua partecipazione emotiva dovrebbe risultare ininfluente. Aggravare la pena richiesta ha l’aria di voler dare un esempio. I giornali hanno parlato di una “sentenza esemplare”. Il compito dei giudici, persino quelli emotivamente coinvolti, non è di dare l’esempio. Devono emettere una sentenza. Il resto scivola pericolosamente verso quella distorsione lugubre che è il populismo giudiziario, l’idea che la giustizia serva per dare soddisfazioni morali. Genovese farà tre anni in più in carcere, senza una necessità evidente. Al dolore di tutte queste vite spezzate si aggiunge quello di una giustizia emotivamente incrinata.
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