in sala

Il Veneto libero (e sbronzo) delle “città di pianura”

Il film di Francesco Sossai è un viaggio alcolico e coinvolgente dentro le fessure della provincia veneta da bere. A spasso tra i ricordi amari e la voglia di scoprire la vita senza paure, fino all'ultima goccia

Riccardo Carlino

“Andiamo a berci l’ultimo?”. Lo sentirete ripetere spesso lungo tutto “Le città di pianura”, seconda fatica cinematografica del regista e sceneggiatore Francesco Sossai. Quell’ultima bevuta ricercata in lungo e in largo fra le strade provinciali di un Veneto notturno e segreto. Il bicchiere come Santo Graal salvifico e – miracolosamente – mai letale. Due sgangherati amici sulla cinquantina si incamminano per incontrare all’aeroporto il misterioso “Genio” (Andrea Pennacchi), vecchio compagno di sbevazzate e cervello di una rivendita sotterranea di occhiali rubati alla fabbrichetta in cui tutti e tre lavoravano. Rintanatosi in Argentina per fuggire alla condanna, è tornato in Veneto per godersi la refurtiva nascosta. È il Godot che aspettano di riabbracciare da anni, seppure con un po’ di amaro in bocca (sia metaforico che non).

Ma tanto nei road movie quanto nella vita vera, la delusione della meta conta sempre meno delle soddisfazioni ottenute durante il viaggio. Lo sa bene Giulio, universitario impacciato e timido che proprio grazie allo sgangherato duo comprende, a poco a poco, quanto sia dolce sbranare la vita senza troppe fisime. A patto che si mandi tutto giù con un sorso. D’altronde la sete di libertà è tanta, la stessa che fa convincere il giovane Roberto de “Il sorpasso” a farsi scorrazzare da Bruno Cortona a bordo della sua Lancia Aurelia. Quell’Italia da miracolo economico immortalata da Dino Risi si sgonfia tutta nel Veneto di Sossai, dove le ferite della crisi del 2008 continuano a bruciare sulle industrie della zona.

Applaudito a Cannes lo scorso maggio, il film è atterrato da qualche giorno nelle nostre sale. A oggi è poco sotto il podio dei suoi principali concorrenti al botteghino, sebbene sia stato distribuito in un terzo dei loro schermi. È un’opera che graffia il palinsesto odierno, sia nostrano che internazionale, puntando il faro su una provincia dove gli anni ’90 non sono mai finiti e la vita prosegue con inedita semplicità. Tanto da rendere ancora possibile fare zingarate da “Amici miei” ed eludere facilmente un posto di blocco, nonostante un tasso alcolemico quasi a doppia cifra (con buona pace del Salviniano codice della strada).

I punti cardinali sono pochi e inossidabili: l’alcol, gli schei, la mona. Traguardi massimi e minimi allo stesso tempo, a cui i due veneti (+1) aspirano senza disperarsi troppo. Le magistrali interpretazioni di Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla (frontman del Teatro degli Orrori) coinvolgono lo spettatore con sincerità ed entusiasmo, e la paura di non tornare più a casa svanisce di fronte alla bellezza di una strada ignota, che raramente sceglieremmo di imboccare. Con loro si vive un bicchiere alla volta finché il fegato regge, con la bocca impastata e la voce imbrunita dalla sbornia, in una notte che dura giorni interi.