
Charlie Sheen (foto Epa, via Ansa)
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Charlie Sheen, l'ultimo bad boy
Nella Hollywood tutta attivismo e impegno civile c’è chi resiste. Peccati e scorribande dell'attore che l’ha sempre sfangata
Negli anni Cinquanta con un linguaggio estroso, carico di doppi sensi e di giochi di parole degni dei migliori troubadour, Kenneth Anger scrisse Hollywood Babilonia. Il libro, pubblicato in Italia da Adelphi qualche decennio dopo, era un insieme di storie scabrose, vere, abbellite o – secondo i diretti interessati – inventate di sana pianta, sulle celebrità del cinema americano. Anger apriva le porte mostrando scandali, assassinii, violenze, passioni proibite, tradimenti, suicidi, feste in barca, orge, tossicodipendenza, incesti, pedofilia e bagni in piscine piene di champagne. In quegli anni d’oro si celebravano divi e dive come vere divinità che, chiuse nelle loro torri d’avorio delle colline californiane, erano incarnazione del vero sogno americano che permetteva di passare dalle baracche dell’Oklahoma alle villone di Bel Air. Personaggi come Errol Flynn e Mae West, Douglas Fairbanks e Jayne Mansfield. La fama e le ricchezze ne facevano davvero entità diverse dai comuni mortali. Chi arrivava a calcare le scene poteva diventava un essere eterno, capace di essere ucciso solo dai suoi simili, o da sé stesso. Figure tragiche, mitiche, con parabole omeriche, da semidei. Svelare i loro sordidi scandali non fece che esaltare ancora di più quella bacchica situazione del monte Olimpo di Hollywood. Le star potevano permettersi quello che volevano, fare quello che volevano. Certo, i bacchettoni ci sono sempre stati, e c’era chi storceva il naso davanti ai poster dei peplum con le bionde scosciate e chi picchettava i cinema di provincia per boicottare la nuova picture “scandalosa”. C’era chi, anche dentro gli studios, cercava di mantenere delle linee di condotta rispettose dei codici puritani governativi e, ovviamente, delle linee guida anti comuniste. E poi certo, i produttori si sono sempre preoccupati di nascondere l’omosessualità dei loro attori protagonisti, o i divorzi di perfette coppie “sullo schermo e nella vita”, e hanno sempre cercato di spremere al meglio i loro attori di punta. La reputazione è sempre esistita, ma forse complice quella privacy garantita dall’assenza di videocamere digitali, smartphone e social, a un certo punto è cambiato qualcosa. Il meccanismo di glorificazione si è inceppato, ha cambiato paradigma, e adesso il popolo cerca la star virtuosa. Il peccato non è più di casa a Hollywood. Oggi gli Oscar chiedono di essere performativi al massimo, ma più che davanti alla telecamera, nelle cause sociali. Come fai a vincere una statuetta se non ti fai carico di qualche battaglia?
Ma c’è qualcuno che se n’è sempre infischiato di tutto questo, anche nei tempi in cui il clima era ormai cambiato e in cui le star dovevano essere un esempio. Un odiatissimo nepo-baby che ha vissuto tutti i vizi immaginabili, collezionando droghe e scandali come si fa con le figurine. E che però sorride ancora. Charlie Sheen, nato sessant’anni fa col nome di Carlos Estévez, ha preso poi quello del padre, Martin Sheen, attore famoso, per poter entrare anche lui nell’industria cinematografica.
Già il fratello, Emilio Estévez, aveva iniziato a calcare le scene da ragazzo – è lo sportivo di “The Breakfast Club” – ma per evitare di apparire come “il figlio di” aveva evitato di ereditare il cognome-pseudonimo. Charlie invece no. “Suona meglio”, avrebbe detto alla famiglia il giorno in cui ha deciso di fare cinema. Tutto questo lo scopriamo guardando “Aka Charlie Sheen”, documentario appena arrivato su Netflix, e leggendo il memoir dell’attore "The Book of Sheen".
Charlie a scuola va malissimo e dice al padre: “Se mi va male mi prendo un diploma da privatista e mi trovo un lavoro”. Per il suo primo ruolo arriva tardissimo la mattina sulla scena di un film cult, “Una pazza giornata di vacanza”, per una parte ottenuta grazie a una sua amicizia con un’attrice – i vantaggi di crescere a Malibu. La parte è molto breve. Deve fare un tipo che ha passato la notte in carcere senza dormire, e quindi decide anche lui di non dormire. La cosa funziona. Anche se la sua scena dura un paio di minuti, è subito una star. “Buca lo schermo”, dicono tutti. Da lì in poi i registi lo cercano. Rifiuta il ruolo daprotagonista di “Karate Kid” perché è impegnato a girare un filmaccio di serie B a Budapest, perché il padre integerrimo gli dice: “Hai dato la tua parola”. A posteriori se ne pente. Quella buona condotta paterna, tutta concentrata sul senso dell’onore, gli ha fatto perdere il ruolo della vita.
Amico di infanzia di Sean Penn (che appare, fumando, nel documentario, con una voce sempre più simile a quella di Robert F. Kennedy Jr.), Charlie non nasconde la rivalità con il fratello Emilio, che non raggiungerà mai la sua fama. Né lui né il padre Martin partecipano al documentario. Charlie e Emilio iniziano da giovanissimi a girare film casalinghi, che diventano sempre più violenti e dark, in parallelo con i ruoli del padre, che vanno a trovare sul set di “Apocalypse Now”. Anni dopo Charlie sarà anche lui in un film sul Vietnam, questa volta di Oliver Stone: “Platoon”. E condividerà anche il set col padre in “Wall Street”, il film definitivo sulla finanza newyorkese anni Ottanta. Da lì comincia il percorso di quello che diventerà il vero “Hollywood bad boy” – così lo definiscono i giornali – perché oltre ai successi sul grande schermo non nasconde vizi e scorribande. Matrimoni durati pochi mesi con le modelle, figlie nate che lui aveva 19 anni, lui ubriaco che si ritrova a pilotare un aereo di linea solo perché famoso, mentre va a girare delle pubblicità di sigarette in Giappone. Tutti lo amano, lo invitano in tv. Serate pazze insieme al suo amicone Nicolas Cage, partite a basket contro Michael Jordan all’apice della fama. Nasconde il vino nella tazza da caffè per far finta di essere sobrio, esce ogni sera, inizia a prendere prostitute da 20 mila dollari a notte, ha storie d’amore con le Bond girl, i poliziotti arrivano a casa chiamati dalle mogli. “Mi ha rovinato la carriera”, dice una sua ex moglie-modella-attrice. Ogni sera è una festa. E poi la droga. Dice che l’unica marcia che ha è quella che va avanti, e lui va avanti velocissimo. “L’ultima volta che ho preso delle droghe ne ho prese così tante che nessun altro avrebbe potuto sopravvivere”, dice. Cocaina, a chili, e poi il crack, e perché no, una sera prova a iniettarsi della coca in vena “come ho visto fare nei film di Tarantino” e finisce al pronto soccorso. Lo danno per morto. Il padre Martin lo fa chiudere in rehab, lo fa arrestare, “per il suo bene” dice. Charlie spara alla sua fidanzata, “per sbaglio”, lei lo perdona. Fa finire in carcere la più importante madame di Beverly Hills da cui prende le escort. Divorzi da tabloid. Ha figli che non gli parlano. Finge di essere sobrio. Dopo il cinema la tv, perché ha bisogno di struttura: prima sostituisce Michael J. Fox che a causa del Parkinson lascia “Spin City”, poi ha una serie tutta per lui, “Due uomini e mezzo”. Nonostante i litigi col cast e col produttore, nonostante a volte sul set non riesca a stare sveglio – una volta, dice, si infila del ghiaccio nel didietro per non addormentarsi – quando gli scade il contratto sono costretti a rinegoziarlo, e diventa l’attore più pagato della storia della televisione. Due milioni di dollari a puntata, per una serie che fa più di venti puntate in un anno. “Erano troppi soldi da dare a un tizio come me, in quella situazione mentale”, dice lui alle telecamere, nel documentario, ma lo dice con un sorrisetto. Perché ogni cazzata fatta da Charlie Sheen fin da quando è ragazzo non ha mai vere conseguenze, almeno non per lui. Anche quando non si impegna, distrugge e si autodistrugge, alla fine ne esce fuori come vincente. “Winning”, diventa a un certo punto la sua parola d’ordine che finisce anche sulle magliette e sui poster. Il suo spacciatore, dice nel doc, si ritrova di colpo ricchissimo, perché Charlie gli dà anche 15 mila dollari a serata. “Incontrarlo è stato come vincere alla lotteria”, dice il pusher, che si è comprato casa grazie a lui. Fa feste che durano giorni, e gli altri vanno a dormire tre giorni per riprendersi dai bagordi, poi tornano alla festa e lo ritrovano lì, ancora attivo, col bicchiere in mano e gli iconici Ray Ban scuri sul naso. Sean Penn dice che la biologia del suo amico Charlie è incredibile. Cade anche nel vortice degli oppiacei e degli antidolorifici. Anche dopo le denunce per maltrattamenti la sua serie tv è tra le più guardate. Il produttore Chuck Lorre – uno degli uomini più potenti del piccolo schermo – lo caccerà via, dopo che Charlie andrà in escandescenza, usando anche il suo nome vero quasi come fosse un insulto – Chaim Levine – e qualcuno lo accuserà di antisemitismo. Va nel podcast del complottista Joe Rogan (ma critica Trump). Dopo essere andato a letto con tutta Rodeo Drive, sperimenta anche con gli uomini. A un certo punto, a fine carriera, si prende anche l’Hiv. “Non c’erano vere conseguenze”, dice Sheen. “Non ti insegnano da bambino a gestire il successo, solo a gestire il fallimento”.
Il nuovo moralismo americano non permette più di incarnare il ruolo di vero bad boy a Hollywood, che è diventata la mecca della società del piagnisteo, dell’attivismo autocelebratorio, dove per essere amati si pensa di dover fingere di amare il prossimo, gli ultimi, la Palestina o il Darfur o il Biafra. Lo abbiamo visto con le kefiah agli ultimi Emmy. Il luogo dove tutto ciò che è decretato come “tossico” viene buttato via. E’ come se questo ruolo chiave si fosse spostato verso la politica, dove però fa molti più danni. Cacciato via da Beverly Hills e dal golden screen – dove ora ti avvertono se ci sarà menzione di sesso o sigarette accese – il bad boy è arrivato a Pennsylvania Avenue. Perché il mondo ha bisogno del ragazzaccio ribelle che non paga mai per quello che fa, ce lo insegnano la fabula, i testi sacri, il teatro. E questo, usando un manuale degli anni Ottanta uscito da Wall Street, è un ruolo che ora ha assunto l’impunibile Donald Trump, che può organizzare un coup d’état a Washington senza poi pagarne le conseguenze, anzi, vincendo, proprio come il #Winning di Charlie Sheen. Nella “nuova sensibilità che decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime” – come scrive Robert Hughes – non c’è spazio per i furfanti vincenti sfacciati, soprattutto nell’intrattenimento, che è altamente controllabile in questo senso. La politica è meno controllabile, non ha i produttori. Donald Trump – che infatti è passato dalla tv – può permettersi cose che un George Clooney, uno Steven Spielberg o una Cate Blanchett non potrebbero mai fare. Leonardo Di Caprio viene attaccato sui social perché esce solo con ragazze sotto i venticinque anni, e lui compensa impegnandosi nella lotta al cambiamento climatico. C’era un tempo in cui il tabagista Frank Sinatra faceva campagna elettorale per i Kennedy. C’era un tempo in cui Humphrey Bogart, impegnato a sinistra, a differenza del resto della squadra non si ammalò mentre giravano un film in Africa perché lui beveva solo whiskey, invece dell’acqua. Anche Marlon Brando mandò sul palco a ritirare il suo Oscar una pseudo Apache, per protestare per la condizione dei nativi, ma era anche un vizioso che oggi è crocifisso per la scena del burro in “Ultimo tango a Parigi”. Oggi se si intravede una giovane rockstar che forse ha della cocaina – com’è successo al frontman dei Maneskin all’Eurovision del 2021 – deve subito apparire in pubblico, negare, scusarsi per il fraintendimento e fare un test antidroga e dire ai giovani “non drogatevi!”, con i giornali che titolano “ecco il video incriminato”.
All’inizio del documentario “Aka Charlie Sheen” viene chiesto all’attore: “Sei sobrio?”. E lui risponde: “Sì, da sette anni, ma quando la gente vedrà questo documentario le cose potrebbero essere cambiate”. E ride, prendendo un bicchier d’acqua con un leggero tremolio della mano. Il quotidiano inglese Guardian ha bocciato il documentario, dicendo che Sheen “non mostra alcun genuino rimorso per tutte le cose terribili che ha fatto”, non rendendosi conto che il punto è proprio quello, che le scuse piagnucolate e la caccia alle streghe contro la “tossicità” non hanno fatto che spostare il baricentro dello sfogo umano verso altri ambienti, in cui la distruzione è reale. Meglio qualche attore sbronzo in più che non sa niente dell’Afghanistan che non i vichinghi a Capitol Hill. Nella società esistono dei ruoli necessari per mantenere un equilibrio funzionale. Quello di Charlie Sheen negli anni si è perso, ed è stato cacciato via da La La Land, come il pifferaio magico dopo che aveva catturato i topi. E’ rimasto solo lui a esagerare senza pagarne le conseguenze, è rimasto solo lui a sfidare le leggi del karma, in quel luogo idilliaco di bibitoni anti-età e Ozempic. Ed è per quello che ride, anche quando parla di cose che avrebbero ucciso chiunque altro. A sessant’anni Sheen non è cambiato. Non sembra aver imparato niente. E questa sembra la sua forza, farsi scivolare addosso le sue colpe, e diventando un dionisiaco capro espiatorio del comportarsi male. “La vergogna è soffocante”, dice, “ma per qualcuno può anche diventare una stella polare”.