al cinema
Aridatece il cinepanettone
Natale con tanti film e tanti comici ma della commedia all’italiana non c’è traccia. E al botteghino trionfa ancora la Cortellesi
Non è più solo una tendenza, un genere, una naturale vocazione del mercato cinematografico. Nel vuoto lasciato dal cinepanettone e dalla latitanza di Checco Zalone s’affolla ormai un esercito di commedie con l’ossessione del colpaccio di Natale. Siani, Pio e Amedeo, Ficarra e Picone, Giampaolo Morelli, i veterani Aldo, Giovanni e Giacomo, Pieraccioni, Neri Parenti, oppure ammucchiate all-star-cast, Abatantuono, il Mago Forest, Nino Frassica, Carol Alt, eccetera. Ogni anno l’elenco s’allunga. Il pubblico sembra sopraffatto. Troppe. Troppo simili. Far ridere gli italiani tutti insieme è diventato davvero complicato. Fuori dalla comfort-zone (Netflix-Amazon-divano, l’immortale “Una poltrona per due” la vigilia, un po’ di scrolling sonnolento su Instagram) anche la ricerca del film delle feste si è fatta difficile. Quest’anno poi l’evento inaspettato: una non-commedia che incassa più di tutte le commedie messe insieme. In una stagione piena di grandi titoli, ma con meno biglietti dello scorso Natale, Paola Cortellesi diventa il nuovo Checco Zalone, santo patrono degli esercenti. “C’è ancora domani” batte anche “Barbie”, supera “Oppenheimer”, surclassa il “Napoleon” di Ridley Scott, si prende con la sua onda lunga anche un po’ di pubblico natalizio. E questi suoi incassi stellari da blockbuster americano, o appunto da commedia natalizia, raccontano di un mercato cinematografico che riscrive le regole gioco e ridimensiona forse anche lo strapotere della risata collettiva come standard nazionale.
La sera di Santo Stefano sono andato a vedermi Ficarra e Picone in un cinema romano del centro. Una gran fila fuori, posti quasi esauriti. Pensavo soprattutto per “Wonka”, con Timothée Chalamet, che piace a grandi e piccini. E invece no. In tanti erano ancora lì per il film di Cortellesi. Sarà stato il passaparola del cenone, “ma come zia, ma non l’hai ancora visto?”. Il fatto è che parliamo di un film uscito il 26 ottobre, con premesse non proprio acchiappapubblico: in bianco e nero, ambientato nel dopoguerra, il rischio di un esordio alla regia (ma questo conta poco, nel film c’è lei, Paola Cortellesi, tra i pochi nomi che portano gente al cinema, nessuno va a vederlo per la regia). “Qui non l’abbiamo più tolto, sono due mesi che lo programmiamo”, mi spiegano infatti alla cassa, “una cosa mai successa, continua a venire gente anche in mezzo alla settimana, anche agli spettacoli del primo pomeriggio”. Mi dicono di affrettarmi, perché anche i biglietti per Ficarra e Picone stanno per finire. Mi metto in fila. Pubblico a colpo d’occhio dai sessanta in su, molte signore, pellicce, piumini lucidi fluorescenti. Entriamo a vedere “Santocielo”, tutto attaccato. La saletta da venti posti scarsi spiega il rapido esaurirsi dei biglietti. Googlando notizie sul film prima che inizi scopro che si ispira a “Billy Wilder, Mel Brooks, Woody Allen, e a quella capacità di parlare di teologia e psicanalisi con grande autoironia”, insomma alla grande tradizione ebraico-siciliana. La trama: in un regno dei cieli che sembra la Baia Imperiale di Gabicce Mare, Dio è come al solito insoddisfatto del genere umano. Ci vuole un altro diluvio universale o un nuovo messia. Si va ai voti. Vince l’opzione messia. Sulla terra mandano Picone, angelo biondo ossigenato e imbambolato, come il Ken di Barbie. Per sbaglio Picone mette incinta Ficarra (con imposizione delle mani). Quindi scene esilaranti a catena: Ficarra che fa dodici test di gravidanza, non può mangiare sushi, non sa come nascondere ai colleghi il pancione che cresce (fa il vicepreside in una scuola cattolica), e la sera a letto legge “Diventare mamma” (e qui le signore accanto a me sghignazzano sgomitando tra loro). Picone nel frattempo si innamora di una suora. Per un po’ il film funziona. Gli attori sono bravi. Ogni tre-quattro gag ce n’è una che va. Poi però inizia a sbrodolare. Verso il finale si accartoccia, si dilata, anche le signore sembrano un po’ spazientite (dura centoventi minuti, non una durata da commedia, il gigantismo dei Nolan, Scorsese, Scott ha contagiato anche Ficarra e Picone). “Santocielo” è la versione maternità surrogata di “Il primo natale”, altra loro commedia del 2019, sempre natalizia, ma più classica, Betlemme, i re magi, eccetera.
Picone incinto come Schwarzenegger in “Junior”, come Mastroianni in un vecchio film di Jacques Demy, “Niente di grave, suo marito è incinto” (ma in francese suonava meglio, “L’Événement le plus important depuis que l’homme a marché sur la Lune”), c’entra però davvero poco con la psicanalisi e la teologia. È casomai una trovata che strizza l’occhio al pubblico progressista, provando a cavalcare il dibattito: la natura è fluida, i sessi possono cambiare, conta solo l’amore, e naturalmente non manca un po’ di femminismo. Insomma, è una commedia “ma fa anche riflettere”. La transizione di genere è illustrata con la sessualità incerta del pesce pagliaccio o della cernia, che in natura a un certo punto diventa cernio. Anche qui le signore ridevano, pur avendo tutta l’aria di votare Giorgia Meloni. Forse andranno a vedere anche il film di Pio e Amedeo, dei Ficarra e Picone un po’ più di destra, che se la prendono col politicamente corretto.
Da tempo mi domando cos’abbiano in comune tutte queste commedie italiane dall’efficacia commerciale altalenante, che escono tra Natale e Capodanno e attraggono in sala per lo più persone anziane o comunque sopra i cinquant’anni. Credo ci siano almeno tre cose. Primo: nessuno tipo di rapporto con quella cosa che chiamavamo commedia all’italiana, di cui bene o male c’era ancora qualche traccia anche nel cinepanettone più scalcinato. Secondo: una certa prossimità con il “family movie”, macrogenere hollywoodiano, vicende spensierate, esemplari, spesso con al centro una famiglia simpatica, pensate per il target del Monopoli (8-90 anni). Terzo: una conseguente aspirazione alla “storia universale”, in cui appunto non sono più rintracciabili elementi di italianità, a volte neanche nei luoghi e nelle facce, ma tratti comuni a tutte le commedie. Trame, sketch, personaggi, vicende che potrebbero essere prese da un film francese, norvegese, spagnolo. Non di rado infatti sono dei remake (e però col solito problema: un conto è per dire Bradley Cooper che mette incinto Ryan Gosling, un altro Ficarra e Picone). Qui entrano in gioco le piattaforme.
I cinepanettoni non dovevano accontentare tutti. Erano progettati per il mercato interno, non arrivavano a Lugano, coccolavano la loro nicchia di pubblico che conoscevano bene. Tra Boldi-De Sica e i loro spettatori c’era un patto segreto, entrambi complici in una ributtante zona franca dove tutto o quasi era permesso. Nell’epoca delle piattaforme le commedie italiane devono circolare in “centonovanta paesi nel mondo” (cit.). E anche se non ci crede nessuno devono far ridere tutti. Devono essere “un po’ meno italiane”. Si inseguono così meccanismi comici sempre più universali, ma in questa grande Ikea della risata si perde e si cancella anche il nostro specifico. Quella cosa per cui abbiamo film come “Il vedovo” o “Il sorpasso” o “Brutti, sporchi e cattivi”, film che noi amiamo, ma che lasciano sbigottiti e increduli spettatori americani o norvegesi che puntualmente ci chiedono: ma come fate a ridere per personaggi così spregevoli? Nella platform society non c’è molto spazio per quella commedia all’italiana. Anche gli ultimi epigoni si ritirano. Carlo Verdone punta ormai su Paramount+ anziché sul film di Natale, Christian De Sica ha anche lui una serie su Prime Video, Checco Zalone è tornato a teatro. La commedia arcitaliana, ossessione e pilastro del nostro cinema, è diventata sempre più complicata. Dopo la lunga, lunghissima fase “coppie in crisi” degli ultimi quindici anni ora va di più la famiglia. Gli italiani del dopoguerra avevano Don Camillo contro Peppone. Noi la famiglia tradizionale contro quella “allargata”, fluida, spontanea, autentica, vera, senza l’ingombro binario dei generi e dei legami di sangue. Anche Pio e Amedeo ci girano intorno, ma con un po’ più di cattiveria di Ficarra e Piccone. “I produttori ci chiedono sempre di scrivere una bella commedia all’italiana”, mi dice uno sceneggiatore che vuole restare anonimo (lo chiameremo Aaron Sorkin), “ma neanche loro sanno più che vuol dire… Il fatto è che se oggi voglio vedermi una commedia all’italiana non vado al cinema: c’è la politica, la cronaca, Instagram, lì dentro c’è roba drammaturgicamente perfetta, trovi sempre almeno un episodio che starebbe benissimo nei ‘Mostri’ di Dino Risi”. Da almeno venti-trent’anni la commedia all’italiana si è trasferita “lì dentro” (titolo dell’ultimo saggio di Filippo Ceccarelli, potente, scapigliata radiografia degli “italiani nei social”). La politica poi, si sa, è il nostro unico star system. Quando si parla di crisi della commedia italiana (che è altra cosa dalla commedia all’italiana) si accampano mille scuse: colpa del politicamente corretto, e non si può più dire nulla, e non si può prendere per il culo nessuno, uffa. La verità, dice Aaron Sorkin, è un’altra: “È che le cose che agitano la società spesso non le puoi portare al cinema… non perché sia proibito ma perché arrivano già vecchie, consumate dai social”. E fa l’esempio dello spot dell’Esselunga, quello della pesca: “oggi è lì che ritrovi quella capacità che aveva la commedia all’italiana di pungere, toccare nervi scoperti, non tanto nello spot in sé, che è solo uno spot fatto bene, quanto nelle reazioni isteriche della società, della politica, ma appunto funziona in un video di un minuto che rimbalza sui social… fosse stato un film non se lo sarebbe filato nessuno”. Si capisce allora anche lo stratagemma di “C’è ancora domani”, che anziché inseguirla sposta l’attualità nel passato, alle origini del patriarcato. Paolo Cortellesi che fa le punture a domicilio come Anna Magnani in “Bellissima” costruisce un simulacro del cinema popolare che fu, facendo comunque una cosa che su Instagram non si trova.
È chiaro invece che la nostra commedia di Natale è l’affaire Balocco, un pandoro per due, directed by Chiara Ferragni. C’è un po’ di perfidia, cialtronaggine, aria di truffa, un che di canagliesco, quel tragico capovolgimento della sorte che faceva la fortuna delle nostre commedie cattivissime (un altro episodio perfetto dei “Mostri”).
Con buona pace di Monicelli non credo che la commedia all’italiana sia finita quando i registi hanno smesso di prendere l’autobus, perché anche allora non è che ne prendessero molti. La commedia all’italiana è finita quando gli italiani hanno cominciato a sentirsi rappresentati da altre cose, com’era inevitabile che fosse. Il cinema e la società hanno iniziato a correre a due diverse velocità. Però certo, neanche Monicelli avrebbe immaginato che avremmo fatto i remake delle commedie francesi per far ridere gli italiani. L’ultimo italiano raccontato dal cinema e restituito in tutta la sua affettuosa mostruosità è stato quello dei fratelli Vanzina. Poi, ma in modo sempre più stanco e ripetitivo, quello grottesco, iperbolico, fumettistico dei cinepanettoni di Neri Parenti o Enrico Oldoini. Sordi cameriere a St. Moritz in “Vacanze di Natale ‘91” era più di un cameo. Era il passaggio del testimone da un’epoca all’altra. Dalla golden age della commedia alla sua ultima fase turbotelevisiva e cinepanettonica. Come Totò, infilato un po’ a forza nei “Soliti ignoti” di Monicelli per benedire con la sua apparizione un film che chiudeva l’epoca della farsa, dei lazzi, dei guitti, e apriva la nuova èra della commedia all’italiana: film drammaturgicamente più complessi, “storie che si potrebbero raccontare anche tragicamente”, come ha scritto Masolino D’Amico, e dove in genere si muore (non si può morire in un family movie). Il commendator Zampetti che arrivava da Milano a Cortina in due ore, cinquantaquattro minuti e ventisette secondi, era ancora il prodotto del lungo strascico dell’italiano del boom. Poi le cose si sono fatte più complicate. I post-italiani sempre più sfuggenti. Non abbastanza globalizzati per quei meccanismi comici universali-hollywoodiani, non più così arcitaliani come una volta. Difficile immortalarli al cinema con quella precisione chirurgica dei film di Monicelli, Risi, Germi. Per carità, ogni tanto ci si riesce. Si fa rivivere come in un sortilegio un’Italia profonda, arcaica, periferica, squallida, mostruosa, senza fare la morale allo spettatore. Era questa del resto la forza della nostra vecchia commedia. La scoperta che gli italiani “amavano sentire parlare dei loro difetti, delle disfunzioni del loro sistema, delle bugie nei loro libri di storia, di argomenti scomodi e difficili solo a patto di poterci ridere sopra” (sempre Masolino D’Amico). Sta qui in fondo anche la forza o la paraculaggine del film di Paola Cortellesi. Come già a suo tempo fu con il caso “La vita è bella”. Non cinema d’impegno, cinema civile, monologo moraleggiante, ma riattivazione delle forze oscure della vecchia commedia all’italiana, però mettendogli l’aureola della giusta causa.