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Cosa ha reso insopportabile e insuperabile Ingmar Bergman

Il regista svedese il 30 luglio del 2007 lasciò un cinema che confinava a est con l’arte figurativa e a ovest con la metafisica

Il 30 luglio del 2007 moriva Ingmar Bergman. Riproponiamo l'articolo pubblicato sul Foglio del 31 luglio 2007.

  


 

Come spesso capita quando qualcuno ha una vocazione, la chiamata arrivò prestissimo. A nove anni Ingmar Bergman cedette un mucchietto di soldatini di stagno in cambio di una lanterna magica. Invece di giocare alla guerra prese a trastullarsi con le ombre e con le luci. Quando accompagnava il padre pastore protestante di chiesa in chiesa, invece di ascoltare i sermoni guardava gli affreschi rischiarati dalle candele. Ne ricavò un gruzzoletto di incubi bastanti per un’intera vita: cavalieri che giocano a scacchi con la Morte, bare che si rovesciano liberando un cadavere con la tua faccia. Nato nel 1907, appartiene alla schiera dei registi che hanno girato film senza aver passato l’infanzia nelle sale buie. Per la generazione cresciuta a pane e cineclub, è il venerato maestro tra i venerati maestri: basta pronunciarne il nome, e la nostalgia canaglia morde il cuore. Per chi è cresciuto con le fette biscottate, e mai si sognerebbe di partecipare a un dibattito dopo i titoli di coda, il nome tanto riverito – se mai dice qualcosa – è sinonimo di noia con sprazzi di angoscia, una massiccia dose di incomunicabilità, un po’ di surrealismo e simboli a manciate, un Dio interrogato che mai si degna di far sentire la sua voce.

 

Quelle tremende scene di matrimonio

Se avessimo visto solo film di Bergman, non ci saremmo mai appassionati al cinematografo. A noi piacevano le femmine folli e fatali che rallegravano le commedie americane e rendevano il noir ancora più noir. Non le tormentatissime, e spesso moribonde, donne che afferravano una scheggia di vetro e si tagliuzzavano tra le cosce. Si entrava – già malvolentieri – a vedere “Sussurri e grida”, o “Persona”, o “Sinfonia d’autunno”, e all’uscita serviva una buona mezz’ora per riprendersi. Lo abbiamo fatto soltanto per motivi di studio. Ci fece lo stesso effetto “Scene da un matrimonio”, che dalla sua aveva una totale – e si suppone autobiografica – sincerità. Fermo restando che la vita è una valle di lacrime, e che il masochismo femminile si incastra perfettamente con la crudeltà maschile, Erland Josephson e Liv Ullman oltrepassano di parecchio la soglia della sopportabilità. I quasi novant’anni di Bergman sono scanditi dai film, dai ritiri in compagnia di belle bionde, dalle depressioni. Gli capitò di girare qualche commedia, come “L’occhio del diavolo” (dal detto: “La verginità della bella donna è un orzaiolo nell’occhio del diavolo”), ma subito disse che servivano per pagare affitto e bollette. Peccato, gli erano riusciti bene, e gli riuscì benissimo il trascinante “Flauto magico”. Lascia – a chi lo vuole – un cinema che confina a est con l’arte figurativa, a ovest con la metafisica. Fatto di fantasmi, di illusioni, di groppi alla gola, di desideri inevasi, quando non duramente puniti, e sullo sfondo un circo, un illusionista o un teatro di marionette. Solo in “Fanny e Alexander”, girato nel 1981, la mistura riesce sopportabile.

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