Carlo Verdone (LaPresse)

Ansiosissimo me

Michele Masneri

I quarant’anni di “Un sacco bello”, il friggizanzare, Sergio Leone e le medicine. Carlo Verdone a ruota libera

L’intervista a Carlo Verdone è uno dei generi più difficili del giornalismo italiano. E’ com’era l’intervista a Dino Risi quando il regista era vivo: ne esistono migliaia, è un rito di passaggio, episodi sentiti centinaia di volte, carriera sottoposta a milioni di carotaggi. Così Verdone: i rapporti con Sordi (argh), con Sergio Leone (aiuto), con Roma (oddio). Però adesso dobbiamo parlare dei 40 anni di “Un Sacco Bello”, il suo primo film, del 1980, che ha creato tormentoni come la spagnola Marisol allo zoo, “io Ladispoli”, “s-stadio Olimpico”, “io non so’ communista così, so communista così”. Battute e luoghi memorabili che per chi non era romano servivano anche come Baedeker geosentimentale per capire Roma.

   

“Hai preso il montacarichi di servizio, ma come si fa”, dice lui, tutto in blu, dolcevita e pantaloni di velluto a coste, costernato

  

Passo quindi due giorni alla ricerca dell’Aneddoto Perduto, e con un po’ di timore busso all’attico che domina Roma dal Gianicolo. Sarà per l’apprensione – Verdone è un mio mito d’infanzia; è cortesissimo, impaziente, ha risposto subito alla richiesta d’intervista, manda messaggi dopo 3 minuti, “sì però leggetele, le mail”, “presto che devo partire”, “troppo tardi”, “allora domani alle 3”, “però al telefono”, poi non parte più, richiama, dice che non ha più voce, d’andare a casa sua. Insomma sale l’ansia, l’indirizzo è complicato, ci sono civici e codici, suono, apre un cancello, prendi la tal scala, il tal ascensore, salgo infine su. Ecco Verdone. “Hai preso il montacarichi di servizio, ma come si fa”, dice lui, tutto in blu, dolcevita e pantaloni di velluto a coste, costernato per me. In effetti pareva un po’ stretto, l’ascensore.

     

Dentro, pareti chiare, foto con Fellini, col papà, con Sordi, un telescopio, uno di quei friggizanzare che ogni tanto frigge. Mi dice “abbiamo cambiato la terra nelle piante, così siamo pieni di insetti, ma non metterlo, non metterla questa cosa del friggi insetti nel pezzo”. Verdone si preoccupa di tutto. Che adorabile ansioso. Intanto si sente: fzz! fzz! “Che me volevi chiede? Son stato un’ora e mezza adesso con Vanity Fair”. Sospira, si accascia in poltrona. Altri aneddoti consumati. Che bella vista, dico io. “Eh, ma quella bella è di sopra”, dice, con aria triste. Tiro fuori un aneddoto che mi pareva abbastanza inedito. Sergio Leone che per fargli fare la faccia paonazza al telefono con la mamma (quella di Ladispoli) gli fa fare due giri di corsa del palazzo in cui giravano, a Roma, nella torrida estate 1980. Lui però non vuole e fa finta, Leone si accorge e gli ammolla uno schiaffone bestiale. Glielo dico, Verdone mi guarda con pietà. Allarga le braccia. “L’ho raccontato molte volte”, esala. Pausa. Sospira. Silenzio. Verdone fa delle pause lunghissime in cui io sbrocco dall’ansia.

    

Per fortuna c’è il friggizanzare. Fzz. Fzz. Mi ricorda un friggizanzare che i miei nonni avevano messo nella casa di campagna, un’estate, mentre noi eravamo in vacanza. Eravamo tornati e c’era questo friggizanzare, che ogni tanto faceva dei “fzz”, e si sentiva un odorino di insetto abbrustolito. Ci penso per scrollarmi di dosso l’ansia. “Nun lo scrive”, mi legge nel pensiero Verdone. “Che poi dicono: Verdone col friggizanzare, Verdone sta in una baracca”. Io taccio. Verdone penserà che sono un babbeo, ma sono in soggezione. “Dai attacca qua, dai”. Appoggio l’iPhone su un tavolinetto e lui racconta, impietosito, qualche aneddoto forse sopravvissuto indenne alle migliaia di interviste.

    

“La Roma in cui i capogruppo, quasi tutti ex pugili, comandavano”. L’aneddoto - inedito? - di Sergio Leone e il trombettista

 

“Con ‘Un sacco bello’ ho voluto restituire al pubblico un’atmosfera che c’era a Roma per l’ultima volta”, dice. “La Trastevere che si parlava di finestra in finestra. Le facce. C’era un esercito di bottegai, ferramenta, vetrai, mercerie, che era come una grande famiglia. Io andavo alla ricerca di facce, a via del Moro, a vicolo del Cinque. A vicolo del Cinque c’erano le contrabbandiere. Delle matrone romane che stavano con la sediolina fuori, e passavi e chiedevi: che ci avete oggi? E loro: ci ho le Marlboro mosce. Se vuoi er pacchetto tosto passa sabato prossimo. Era così Roma: pacchetto moscio o pacchetto tosto. Molte di loro erano state utilizzate da Fellini in Roma. Fellini le aveva prese dai capogruppo, quelli che facevano i cast delle comparse, che le avevano pescate dal suk di Trastevere”. “Era una Roma belliana, non la Roma violenta e degradata e nevrotica di oggi, dove le periferie non sono più un circolo di facce e piccola delinquenza ma centri di spaccio”. Stiamo andando bene. “Una Roma in cui i capogruppo comandavano. Stavamo girando la scena di Marisol, quando Leo, il mammone che deve andare a Ladispoli, sul terrazzino le vuole preparare una cena a lume di candela, il vino tinto, il vino blanco, ti ricordi?”. “Eravamo a Santa Maria in Trastevere. La scena doveva essere girata in presa diretta, senza doppiaggio, sia per naturalezza che perché avevamo pochi soldi. Ma in piazza c’era un casino, c’era chi suonava la chitarra, chi cantava, e poi un rompicoioni che suonava la tromba, pe-pe-pe, tipo generale Custer, avrà avuto cinquant’anni. E non potevamo girare. ‘Ma che dovemo sta a aspetta’ le quattro di mattina pe’ gira’?’, dice Sergio Leone. Allora chiama uno dei capogruppo, sotto, Alfredo. Alfredo risponde: ‘Agli ordini!’. Devi pensare”, dice Verdone, “che all’epoca questi capogruppo erano quasi tutti ex pugili”. “Me levate dai coioni sto trombettista?”, dice Leone. “Sta tranquillo, tra un minuto giri”. “Si sente pe-pe-pe. PAM. PAM, e un rumore d’acqua. Praticamente prendono il trombettista, gli prendono la tromba, gliela rompono, e lo buttano dentro la fontana. E poi: a Sergio, mo’ potete gira’!. Capisci? Oggi finirebbe a colpi di pistola”. Molto bene, questo non l’avevo sentito mai.

    

   

“‘Un Sacco Bello’ era un film molto semplice”, va avanti Verdone, “cinque settimane e un giorno di riprese, e la solitudine di tre personaggi nella Roma d’agosto, deserta. I romani vogliono molto bene a quel film. C’è una targa a Trastevere, con scritto qui Leo incontra Marisol”. “E a via Conti, al ‘palo della morte’, dove il coatto Enzo aspetta l’amico in macchina un’altra, la stanno per mettere”. C’è un personaggio a cui è più affezionato? A me piace molto il cugino Anselmo, un minore, il nevrotico che dice “noooo” e “Stefania non ha soltanto rappresentato per me un cardine, un orizzonte. Nooo: ha rappresentato un investimento economico”, e fa il calcolo con la calcolatrice di quanto risparmia da sposato rispetto alla vita da scapolo. Un tipo di romano nevrotico che esiste veramente, ne ho incontrati tanti. Lo sguardo di Verdone si intenerisce: “L’episodio del salotto mi faceva molta paura, temevo che venisse fuori un po’ una cosa da avanspettacolo… ma poi la potenza di Mario Brega tiene insieme tutto”. Lì, nell’episodio in cui Verdone fa quattro personaggi – l’hippy boccolone Ruggero, il prete calabrese don Alfio, il cugino Anselmo, il professore in vestaglia – c’è anche Fiorenza, cioè Isabella De Bernardi, la figlia di De Bernardi lo sceneggiatore che Verdone conobbe mentre scriveva il film – quella di “attento fascio che ‘nun ce metto niente”. “Ma è famosissimo come aneddoto”, dice Verdone, quasi dispiaciuto di quest’altro aneddoto inutilizzabile. (Fzz!, un’altra zanzara fritta).

   

“Io ho sempre amato i difetti. Certo non i difetti aberranti. Un delinquente vero, uno zozzone, non li faccio, non mi sono simpatici”

 

“Però forse il mio preferito…” (ah, meno male, ne ha uno) “è il bullo Enzo, quello alla ricerca di compagni di viaggio per andare a fare turismo sessuale oltrecortina”. “Quello nasce da un vero viaggio in Polonia che avevo fatto, naturalmente, sennò come lo scrivevo il film? Ero partito con due amici, con una 127, e a Wroclaw, la vecchia Breslavia, in un ostello, e lì parcheggiate c’erano solo macchine italiane, tra cui una Fiat Dino nera, uguale poi a quella che misi nel film. E c’era questo personaggio, uno di Viterbo, vestito tutto di nero. Lo incontriamo in ascensore, parlava solo di scopate, di fica, mi dice: ‘Con la Dino nera, te ne fai anche due o tre a sera’, facendo il gesto a pugno della mano in avanti. Io ero costernato. Questi ci fanno fare brutta figura come italiani!”. Il suo personaggio, che non sapeva ancora di esserlo, gli vuole presentare la sua ultima fiamma. “Vie’ qua”, intima a una spilungona nella hall, e gli mostra questa ragazza, lei sorride, “e davanti le mancavano tutti i denti, non so, una specie di impianto primordiale a cui forse il dentista polacco doveva montare i denti uno per uno”. Quando Verdone fa elegantemente notare il problema orale, “a me i bocchini me li fa pure mi’ nonna!”, risponde il proto-Enzo. “Però scrivi boccagli, non scrivere bocchini”, prega adesso Verdone, angustiato. Bocchini o boccagli, “se tu non ami le persone per questi difetti, come fai” (qui si lascia andare). “Io ho sempre amato i difetti. Certo non i difetti aberranti. Un delinquente vero, uno zozzone, non li faccio, non mi sono simpatici. Però il mitomane a me piace. Il megalomane mi piace. C’è la solitudine. C’è la malinconia. Uno che parte, fa tremila chilometri, lo fa perché è solo, sennò se ne starebbe a casa”.

      

Verdone parla con nostalgia di questi personaggi, di queste facce, si capisce. “Io sono stato un pedinatore di italiani. Ero bravo, ma più che bravo, ero sensibile, avevo una gran sensibilità, ecco”. Gli viene lo sguardo triste. Verrebbe da abbracciarlo. E oggi, non ci saranno altre facce da guardare? Certi influencer, gli dico. Si irrigidisce. “Ma io ho smesso di seguire le facce. Sarei grottesco, sarei patetico, oggi. Guarda che faccia ho io. Non ho più la maschera giusta. Sono stempiato, non sono più quello di allora. Da anni ho scelto di mettere le facce al servizio delle storie. Il pubblico non mi può più chiedere personaggi. L’ultimo gliel’ho dato in ‘Grande grosso e verdone’. L’ultimo fuoco d’artificio. Adesso basta!”. Sì ma non faccia così, dicevo per dire. “Fu faticosissimo comunque ‘Un Sacco Bello’. Io avevo un’energia che oggi non avrei mai”, dice Verdone. “Tanta di quell’energia che finimmo due giorni prima del previsto”. Si sa che il film era a basso costo, e nacque perché Sergio Leone aveva visto alla tv gli sketch di Verdone nella trasmissione “No stop”; “telefonò a mio fratello che aveva scritto un libro su di lui, e ‘me devi dà er numero’”.

  

Leone a quel punto diventa una specie di Mario Brega che sta lì minaccioso a controllare tutto. Sceglie pure gli attori, come Marisol. “Colpa delle emorroidi”. Come le emorroidi? “Appena iniziate le riprese, mi viene un attacco bestiale, ma non potevo operarmi, primo perché il plesso era infiammato, poi perché non avrei avuto i tempi di recupero necessari” (qui Verdone entra in una serie di termini specifici anatomici, è nota la sua passione per la medicina). “Io aspetto dieci giorni, qua se entro dieci giorni nun cominciamo ce salta la troupe, salta tutto”, dice Leone. “Io giravo in quelle condizioni, seduto su una ciambella, col pannolone, senza camper perché non ce lo potevamo permettere, nella Roma torrida di agosto. Al decimo giorno, un miracolo: lo sfintere a un certo punto si sfiamma, mentre faccio l’ennesimo bidet di acqua ghiacciata, tutto si risolve da sé. Leone però aveva già deciso che avrebbe scelto lui l’attrice che deve fare Marisòl. ‘La vado a trova’ io st’attrice, ho capito’. Va e torna da Barcellona, con tre foto, ‘Vediamo se indovini quella che piace a me’”. Verdone sceglie: “Bravo”. “Si chiamava Veronica Miriel, padre cileno, madre spagnola, famiglia molto ricca, avevano allevamenti di tori. Molto disinibita. Dovevamo fare la scena di lei che si butta nella fontana delle foche allo zoo. Lei si toglie tutto, si butta per terra e mima la scena. Poi un’altra volta, una sera durante le riprese, mi chiede se la porto a piazza Navona, e lei si butta dentro la fontana dei fiumi. E lì, io la asciugo, la riporto alla Lambretta che avevamo parcheggiato, ma ci seguono decine di coatti. ‘Aho, ammazza che pezzo de fica’. E a me: ‘Che mangi da solo? Facce magnà pure a noi!’”. 

   

“Che poi, dicono che sono un fanatico, ma quale fanatico. In Italia appena ti interessi di qualcosa ti dicono che sei un fissato”

 

Chiedo se per caso l’amore straziante di Leo per la spagnola Marisòl non risalga a un Aneddoto Molto Noto, quello in cui Verdone si innamora di una ragazza inglese in visita a Roma, che poi va a trovare in Inghilterra e quando suona si trova un energumeno, e torna a Roma sconsolato. “No, era un’altra storia, era proprio una spagnola, che mi aveva raccontato un mio amico”.

    

  

Verdone intanto risponde al telefono, “Sì, oggi un’intervista dietro l’altra”. “Eh, lo so, che devo fa”. “Hai febbre?”; “Eh, ma la sera” “Controlla sempre la sera se ti sale”. “Ci sentiamo dopo”. “Che poi, dicono che sono un fanatico, ma quale fanatico. In Italia appena ti interessi di qualcosa, ti dicono che sei un fissato. Semplicemente mi interesso, ecco. Mi leggo gli atti dei congressi di medicina. Credo che siano una lettura fondamentale, che dovrebbero fare tutti. Non che mi interessino tutti i settori, poi. La ginecologia, per esempio, no. Ma le malattie della pelle mi interessano. Le malattie del sistema nervoso mi interessano” (qui sembra un po’ il cugino Anselmo). Non resisto, all’idea di un consulto con Verdone, per me lui è sempre quello di “copro fino al delirio schizoide”, la valigia di farmaci di “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”, e gli racconto dell’insonnia che mi perseguita. Gli dico il sonnifero che prendo. “Ma che sei matto!”, dice, come un personaggio di Verdone. “Ma è come buttare una molotov per uccidere un formicaio!” (qui sembra il professore, quando dice “mio figlio Gabriele”). “Tu devi prendere una benzodiazepina leggera, con un’emivita lunga, ecco. Fai così: due gocce di Anseren, la sera, tre ore prima di andare a dormire. E mai alcolici. Gli alcolici non me li prendere, se puoi”. “Poi mi associ due gocce di Laroxil, che ti fa la parte antidepressiva”. Ma io non sono depresso. “Tu sei un pochino depresso, scusa se te lo dico. Se non dormi... Si chiama depressione mascherata”. “Allora me ne prendi due gocce, poi passi a tre dopo una settimana, e poi a quattro”. “Te guarisco io”, dice Verdone, con lo stesso affetto che aveva per i suoi personaggi. “Li ho guariti tutti gli amici miei”. Poi sta zitto, di nuovo. Pausa mostruosa. Il friggizanzare fa un ultimo fzz. Usciamo sul pianerottolo. “Fammi sapere come va, eh. E niente alcolici”. “Il montacarichi no, che ti dà claustrofobia”.

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