Chi insegna agli attori gli accenti giusti?

Mariarosa Mancuso

Ecco chi sono i “dialect coach”. Un cinema che prende la recitazione sul serio. Con una sola nuvola all’orizzonte

Quando uno è a dieta si tira un po’ su leggendo libri di cucina. Gli sfortunati in amore si consolano immaginando storie romantiche. Negli ultimi giorni abbiamo sentito spettatori lamentarsi per il doppiaggio di “Il gioco delle coppie”, capace di azzerare il meraviglioso orecchio di Olivier Assayas per le chiacchiere parigine. Abbiamo preso nota, guardando “Il ritorno di Mary Poppins”, di goffaggini canterine come “si può riparare quello che infrangiamo” (ma quale labiale impediva di dire “rompiamo”?), di “appiglio” piazzato a fare rima con “consiglio”, di sillabe in soprannumero: “A Londra soffia un’aria nuova e prima o dopo ne avremo prova”.

  

Per consolazione, leggiamo su Variety un articolo dedicato ai “dialect coach”, professionisti che insegnano agli attori gli accenti giusti per la parte (sì, gli accenti, è un cinema che prende la recitazione sul serio, non usa far dire i numeri e poi doppiare anche gli italiani, siano essi attori o presi dalla strada). Per “Senza lasciare traccia” di Debra Granik – bellissimo film, da cercarsi con il lanternino perché nessuno ci ha creduto – Mary McDonald-Lewis ha insegnato alla giovane attrice australiana Thomasin McKenzie l’accento di Portland. Tim Monich ha prima insegnato a Bradley Cooper l’accento giusto per il cecchino texano di “American Sniper”, e poi ha accordato la voce dell’attore con quella di Lady Gaga in “A Star is Born”. La prima coach raccomanda l’atteggiamento olistico-new age, dice di aver preso la ragazzina e di averle cambiato oltre alla voce anche il carattere. Il secondo è più tecnico: parla di ottave, di vocali, di posizioni della lingua.

 

L’inglese Neil Swain (viene dalla Royal Shakespeare Company) ha insegnato all’americana Emma Stone l’accento giusto per il suo ruolo in “La favorita”. L’altra delle “bitches” – parola di Olivia Colman che per il ruolo della regina Anna ha vinto un Golden Globe, e ha il giusto accento teatrale – era Rachel Weisz, nata a Londra ma vissuta a lungo negli Usa (e come diceva Oscar Wilde, “inglesi e americani sono due popoli divisi da una lingua comune”).

 

Willem Dafoe sostiene che l’orecchio bendato e la vena di follia erano più che sufficienti per imitare van Gogh, non c’era bisogno di un coach. Si spinge fino a dire che l’accento disturba (ma allora perché rifare tutto il resto, come se fosse un quadro vivente?). C’è sempre chi deve farsi notare, e intanto torna come un incubo il pasticcio linguistico di “Pasolini” diretto da Abel Ferrara.

  

Una sola nuvola all’orizzonte. La scuola “per la parte di un disabile bisogna essere disabili” (l’ultima polemica ha investito Bryan Cranston in sedia a rotelle). Finirà che i texani faranno i texani, e i californiani i californiani. Anche i maestri di recitazione, oltre ai dialect coach, dovranno cambiar mestiere.

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