Non ci resta che il crimine

Cosa sapere del film di Massimiliano Bruno, con Alessandro Gassman, Marco Giallini, Edoardo Leo

Mariarosa Mancuso

Contrordine compagni. Pare non sia vero, come sembrava fino a poco fa, che l’anno cinematografico 2018 sia stato in Italia disastroso (poi però a leggere le dichiarazioni ufficiali vien fuori che sì, c’è stato un arretramento, ma serve per il balzo in avanti che ci sarà immancabilmente nel 2019, quando il pubblico tornerà in sala e l’estate sarà ricca di uscite golose). Fanno sapere inoltre che certi film italiani non vanno giudicati in base al numero di biglietti staccati, ma per l’importanza culturale in patria e all’estero. E che certo, non abbiamo avuto nel 2018 titoli miliardari, ma lo zoccolo duro dell’industria sta nel prodotto medio, che “attraverso la quantità esprime anche vitalità e progettualità per nulla scontate”. Prendiamo atto di ogni cosa, resta il problema di come collocare “Non ci resta che il crimine”. Se questo è il prodotto medio – quello che serve per tenere occupate le macchine e per scoprire nuovi talenti e nuovi volti – davvero non c’è salvezza. Gli americani guardano con nostalgia agli anni Ottanta e girano la serie di culto “Stranger Things” che omaggia Steven Spielberg. Gli italiani guardano con nostalgia agli anni Ottanta, e viene fuori – oltre al film di Paolo Virzì “Notti Magiche”, una fissazione quest’anno – la Banda della Magliana: un viaggio nel tempo che conduce tre sfigati (vorrebbero guadagnare con un tour sui luoghi già sfruttati da “Romanzo criminale” in tutte le versioni) al cospetto di Renatino De Pedis. Sono passati attraverso una scorciatoia spazio temporale, con smartphone e tutto (dotati di batterie che mai si scaricano). Ma soprattutto sono stati teletrasportati nello schifoso baretto dai loro film precedenti: Alessandro Gassman e Marco Giallini sono eternamente uguali a se stessi, qualunque sia il personaggio. Stesse mossette, stesse appoggiature dialettali, stesso imbarazzo per chi guarda e sogna un cinema dove recitare vuol dire “far finta di essere qualcun altro”. La ditta Pennelli Cinghiale ne approfitta per un bel piazzamento di prodotto che dà l’aria del tempo. Ilenia Pastorelli – la pupa del capo, sempre mezza nuda – dovrebbe far causa al regista per certe inquadrature poco donanti.

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