Foto tratta da Netflix

“Bright” riempie il buco dei film brutti su Netflix

Mariarosa Mancuso

Una volta i film brutti li faceva Ed Wood, divenne un mito. Oggi David Ayer, fiero per l’etichetta “peggior film del 2017”, pregusta il culto futuro

Una volta i film brutti si facevano a mano. Li girava Ed Wood, celebrato nel film di Tim Burton. Il combattimento di Martin Landau con la piovra – il polipone sul set era sprovvisto di motore, l’attore nella parte di Bela Lugosi doveva muoverla e nello stesso tempo difendersi – rimane leggendario. Come la moquette al cimitero, avrebbe dovuto simulare la terra, i lembi incollati male si sollevavano ma era sempre “buona la prima”. Per gli spettatori convinti che il cinema sia cominciato con Quentin Tarantino – Ed Wood lavorava negli anni Cinquanta – il peggior regista del mondo si chiama Tommy Wiseau. Ha scritto, diretto, recitato, un film intitolato “The Room”, prontamente ribattezzato “Il ‘Quarto potere’ dei film brutti”. Uscì in due sale losangeline nel 2003, incassò meno di duemila dollari – ne era costato qualche milione, e ancora non si sa da dove venissero – e subito diventò di culto.

 

James Franco racconta Tommy Wiseau e l’opera maledetta in “The Disaster Artist”, presentato e molto applaudito al South by Southwest Film Festival (non succede sempre, ogni tanto l’attore si lascia trascinare da progetti dissennati). Lo ha fatto con totale dedizione – dopo i titoli di coda le scene ricostruite son messe in parallelo con le scene originali, difficile distinguerle – e con magnifica perfidia. Non capita spesso di vedere tanti attori bravi che fingono di essere cani, da bocciare al primo provino.

 

Oggi i film brutti si fanno a macchina. Meglio, con l’algoritmo. Non sono più il risultato di una mente delirante che lavora da sola (anche sfidando gente che dice “cazzata, lascia perdere, ti rideranno dietro”). Sono congegnati per riempire una casella che evidentemente mancava, nella griglia di Netflix che non intende scontentare nemmeno un abbonato, per quanto di gusti stravaganti. Deve essere nato così “Bright” di David Ayer. Lo ha scritto Max Landis, che oltre a essere il figlio di John Landis sta lavorando a un remake di “Un lupo mannaro americano a Londra”. Speriamo si attenga al modello.

  

 

In “Bright” – la “luccicanza” dei destinati a salvare il mondo – ha messo troppo di tutto, saltabeccando tra il realismo e il fantastico alla maniera (disastrosa) di “Cowboy and Aliens”. Il poliziotto Will Smith pattuglia in coppia con un orco tatuato. Gli elfi con le orecchie a punta non svolazzano eterei nei boschi fanno shopping e guidano macchine di lusso. Ci sono le fate e le bacchette magiche, ma le fatine vengono ammazzate a colpi di scopa, come grosse zanzare fastidiose. Ci sono gli Scudi di Luce, il Signore Oscuro che sta per tornare (come l’inverno in “Game of Thrones”), l’unità speciale investigativa che tratta la Magia. 90 milioni di dollari spesi, più di tre solo per la sceneggiatura. Il regista – fiero per l’etichetta “peggior film del 2017” – pregusta il culto futuro.

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