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La Chiesa americana è pronta (con calma) ad archiviare le guerre culturali

Più che l'elezione di mons. Coakley alla presidenza dell'episcopato, rileva l'elezione di mons. Flores alla vicepresidenza

Matteo Matzuzzi

Il successo di mons. Flores è un chiaro segnale che parte dell’episcopato – e non solo quello di nomina bergogliana – è più incline a cercare un nuovo modo di fare presenza, complice da una parte la presenza a Roma di Leone XIV e dall’altra quella di Donald Trump alla Casa Bianca

Roma. La notizia giunta martedì da Baltimora non è tanto l’elezione di mons. Paul S. Coakley a presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. Dei dieci in lizza, era il favorito: segretario generale uscente, all’ultima possibilità per assurgere al principale degli incarichi (ha 70 anni), cosa preclusa al vicepresidente in carica, mons. William E. Lori, prossimo al pensionamento. Solido conservatore ma assai poco presente sulla scena mediatica, Coakley rappresenta la continuità rispetto alle ultime presidenze: DiNardo, Gómez, Broglio, senza dimenticare, prima di loro, Dolan e Kurtz. E’ stata però un’elezione più sofferta del previsto, ottenuta solo al terzo scrutinio, il ballottaggio che l’ha visto opposto a mons. Daniel E. Flores, vescovo di Brownsville, in Texas: 128 a 109. Mons. Flores ha poi conquistato subito, al primo voto, la vicepresidenza. Una rarità. Ciò dice molto sulla strada che ha davanti a sé la potente, numerosa e ricca Conferenza episcopale statunitense, che negli ultimi dodici anni non è mai riuscita a sintonizzarsi sulle frequenze impostate a Roma da Papa Francesco. Ora, con un americano di Chicago alla guida della Chiesa, sembra che qualcosa stia iniziando a mutare, se non altro la volontà di richiamare dalla piazza le guarnigioni a lungo impegnate nelle culture war. Il successo di mons. Flores è un chiaro segnale che parte dell’episcopato – e non solo quello di nomina bergogliana – è più incline a cercare un nuovo modo di fare presenza, complice da una parte la presenza a Roma di Leone XIV e dall’altra quella di Donald Trump alla Casa Bianca. Il nuovo vicepresidente, in questo senso, è perfetto: teologicamente gradito dai conservatori, sul piano sociale molto apprezzato dai liberal.  La sintesi perfetta, secondo molti osservatori e – a quanto pare – molti vescovi. Flores è giovane e con i suoi 64 anni con ogni probabilità sarà chiamato a guidare diocesi di rango (nei mesi scorsi, vivente Francesco, il suo nome era circolato come possibile successore del cardinale Dolan a New York). Non è classificabile all’interno delle consuete categorie che vedono da una parte i conservatori e dall’altra i progressisti, tant’è che – scherzando ma non troppo – qualcuno l’ha definito “il più conservatore dei progressisti e allo stesso tempo il più progressista dei conservatori”.

 

Al di là delle etichette, il profilo è quello di un vescovo che va oltre il battagliare quotidiano su morale, dottrina e politica che ha segnato per almeno un quarto di secolo la Chiesa americana. Di certo, come riconosciuto da diverse analisi, anche indipendenti, la base di fedeli e clero giovane è fortemente conservatrice se non tradizionalista. L’aver portato alla vicepresidenza un vescovo teologicamente “tradizionale” – nel 2020 fu eletto presidente della commissione per la Dottrina della conferenza episcopale locale – ma assai coinvolto sul tema dei migranti e referente interno del cammino sinodale può indicare un desiderio di archiviare una fase di rapporti tesi con il Vaticano che ha caratterizzato tutto il pontificato di Francesco. Una sorta di nuovo inizio, capace di dialogare e soprattutto di mediare. Non solo all’interno della Chiesa, dove frotte di fedeli impegnati s’accapigliano quotidianamente su ciò che rientri nel calderone pro life e cosa no, sulle messe in vetus ordo proibite, sul fatto che sia moralmente lecito o meno per un cattolico sostenere l’agenda di Trump e su quanto cattolico sia davvero il vicepresidente convertito J. D. Vance. Battaglie che iniziate sui social hanno finito per coinvolgere perfino vescovi e cardinali. Dall’urna di Baltimora pare scorgersi una terza via

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