Matteo Zuppi (LaPresse)
Il documento sinodale della Chiesa italiana? Più di cento paragrafi utili solo a piantare bandierine ideologiche
L'imbarazzo dei vescovi costretti a rincorrere il solito “laicato impegnato” interessato a perorare solo due questioni: donne e lgbtq+
Il vescovo di San Miniato: “Ho sentito in più punti la forzatura di far diventare richiesta di tutti ciò che era solo di pochi e la difficoltà di chi doveva votare, senza ormai poter più far distinzioni, articoli in cui c’erano, tutte insieme, proposte non omogenee e – è una mia valutazione – tendenziose"
Faceva un po’ specie ascoltare mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, responsabile del Cammino sinodale della Chiesa in Italia, presentare il documento monstre (tre parti e ben 124 proposte) che l’assemblea aveva appena approvato con una netta maggioranza dopo quattro anni di lavoro. Un po’ meno netta nei punti dolenti, vale a dire quelli che poi sono stati subito ripresi dai media: i vescovi protestano che si parli solo di “gay pride”, ma risulta arduo fare il contrario se i convenuti assembleari nel documento mettono per iscritto l’auspicio che “la Cei sostenga con la preghiera e la riflessione le ‘giornate’ promosse dalla società civile per contrastare ogni forma di violenza e manifestare prossimità verso chi è ferito e discriminato (Giornate contro la violenza e discriminazione di genere, la pedofilia, il bullismo, il femminicidio, l’omofobia e transfobia, etc.)”. Mons. Castellucci dà la colpa a chi si è fatto influenzare dalle voci circolate sul web, assicura che in realtà non si parla “di manifestazioni del Gay pride” ma delle giornate cui “la Chiesa aderisce già con il suo stile” (paragrafo passato, per la cronaca, con 637 sì e 185 no). Il percorso, naturalmente, non è finito qui: “Una volta che oggi questa assemblea sinodale ha congedato il testo con il suo voto, è ora compito dei pastori assumere tutto, individuare priorità, coinvolgere forze vecchie e nuove per dare corpo alle parole. Collegialità e sinodalità”, ha detto il cardinale Matteo Zuppi, ricordando che a novembre l’Assemblea generale della Cei discuterà soprattutto di questo documento, stabilendo priorità, delibere e note”. E se ne riparlerà ancora il prossimo anno, quando probabilmente saranno stilate alcune linee guida.
Lo scorso 3 aprile la bozza fu bocciata a larghissima maggioranza per l’insurrezione di quanti ritenevano il testo troppo “vecchio”, residuo di un antico modo di fare Chiesa e poco avanzato sui temi sensibili sui quali si dovrebbe mostrare più apertura, che poi sono sempre i soliti: omosessualità e presenza femminile. Una sollevazione che determinò il ritiro del documento e il rinvio in autunno della votazione sullo stesso. Fu addirittura riprogammata l’assemblea generale che tradizionalmente si tiene a maggio per far maturare meglio il tutto e calmare qualche spirito fin troppo bollente. Ci furono delegati laici che tentarono una sorta di coup d’état, rampognando vescovi timidi e assicurando che le cose d’ora in poi sarebbero cambiate. Furono momenti di tensione, nonostante i comunicati spiegassero che proprio questo era il bello della sinodalità: discutere insieme anche animatamente. Una versione hard della parresia cara a Papa Francesco che fu definita come “vivacità prorompente”. “I momenti di tensione fanno parte da sempre dei percorsi sinodali e sono esperienze spirituali, se vissuti – come è successo in questa assemblea – in modo costruttivo”, tagliò corto mons. Castellucci.
Al di là di quanto è accaduto in primavera e oggi, resta il dubbio se dietro al maxitesto votato si celi davvero la ricetta, la formula magica, per dare una sveglia a una Chiesa italiana che da tempo risulta fin troppo assopita. Non per colpe particolari: sta accadendo qui quanto s’è già visto ad altre latitudini europee, tra calo delle vocazioni, seminari vuoti o semivuoti, pratica domenicale riservata per lo più a fedeli con un certo numero di anni sulle spalle e giovani che non si fanno più vedere dopo la cresima. Insomma, un generale impoverimento e invecchiamento delle comunità che in molti contesti, se non curato, porterà all’estinzione. Davvero sono le sottolineature para-sociali a segnare la svolta? Davvero la priorità è formata dal tandem ormai onnipresente in ogni discussione sinodale formato dalle parole “donne” e “omosessualità”? Domenica, sul Corriere della Sera, il vescovo di Sulmona mons. Michele Fusco con molta prudenza faceva trasparire le proprie perplessità su quanto votato, osservando che certo, si parla poco di famiglia. Non proprio un dettaglio. Mons. Savino, il sempre loquace e barricadero vicepresidente della Cei, dice alla Stampa che quanto deliberato è importante sul piano “della coerenza umana”. La Chiesa, continua, “fa compagnia alla persone”, prima di cedere alla sociologia purissima, affermando che bisogna passare “da una pastorale per le persone lgbtq+ a una pastorale con loro: partecipata, dialogica, sinodale. Non si tratta di fare spazio, ma di riconoscere che lo spazio c’è già. La Chiesa è la casa di tutti, non la fortezza di pochi”. Di nuovo, davvero è questa la priorità? Ha senso uno scontro su questioni che con ogni evidenza sono minoritarie nella vita stessa della Chiesa? Basterebbe considerare la ricezione del Cammino sinodale nelle diocesi italiane, dove in molti non sanno neppure che fosse in corso una discussione dai contorni sinodali. Un po’ come quando ci s’accapigliò per la benedizione delle persone che formano una coppia omosessuale (le famose benedizioni a tempo, cronometro in mano): situazioni residuali che già venivano risolte, lontano da riflettori e taccuini di giornalisti, dai sacerdoti che conoscevano di persona quei fedeli. Senza la necessità di timbri, avalli vaticani, motu proprio o dichiarazioni cardinalizie in proposito.
La differenza è che qui si volevano piantare bandiere, rivendicare conquiste. Bastava ascoltare diversi interventi pronunciati in questo quadriennio. Un’idea di quanto avvenuto l’ha data il vescovo di San Miniato (la diocesi che ha “donato” a Leone XIV il suo secondo segretario), mons. Giovanni Paccosi: “Ho sentito in più punti la forzatura di far diventare richiesta di tutti ciò che era solo di pochi e la difficoltà di chi doveva votare, senza ormai poter più far distinzioni, articoli in cui c’erano, tutte insieme, proposte non omogenee e – è una mia valutazione – tendenziose. Il Cammino sinodale ci ha rilanciato nella missione e nella vicinanza a “tutti, tutti, tutti”, come ci diceva Papa Francesco. Ma l’apertura senza limiti (cattolica) non era per Papa Francesco senza criteri chiari. Invece nel nostro documento sinodale ci sono alcune espressioni che ritengo ambigue: proprio quelle che adesso sono sulla bocca di tutti”. Il riferimento è chiaramente all’accoglienza delle persone omosessuali, e qui mons. Paccosi scrive: “Si aggiunge all’accoglienza auspicata il ‘riconoscimento’. Ma ‘riconoscere’ non è sinonimo di ‘accogliere’: ho ascoltato io, come tanti con me (lo disse per esempio a noi nuovi vescovi nel settembre 2023 dove parlava proprio di questo tema) Papa Francesco affermare che la Chiesa accoglie tutti, ma non accetta che si portino ‘bandiere’, altrimenti si scade in una rivendicazione ideologica”. Il vescovo di San Miniato non è contrario al Cammino sinodale, tutt’altro: “Credo fermamente che la sinodalità sia la strada della Chiesa, come del resto Papa Leone ha ripetuto varie volte in questi mesi e in questi giorni. Non possiamo ridurlo alle controversie su questi punti particolari che non sono pacifici, e che inoltre non scaldano granché la vita quotidiana delle comunità che conosco”. Comunità che “si rianimano quando si fa esperienza non di documenti o di programmi pastorali, ma della presenza misteriosa e concreta di Cristo. Allora rinasce la comunione, la corresponsabilità, l’accoglienza”.