
stati uniti
La Chiesa americana elegge i nuovi vertici sotto gli occhi del "suo" Papa
Fra un mese il voto del nuovo presidente. I candidati sono per lo più conservatori. Quanto peserà l'avere un Pontefice di Chicago?
Il tema dei migranti sarà centrale nelle discussioni della plenaria novembrina. Anche perché sulla riunione incombe il messaggio arrivato qualche giorno fa dal Vaticano, dove il Papa – ricevendo il vescovo di El Paso, mons. Mark J. Seitz – ha chiesto esplicitamente “l’unità della Chiesa” nell’affrontare una questione di “dignità umana”
Roma. Tra meno di un mese, nel corso dell’assemblea plenaria programmata dal 10 al 13 novembre, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti rinnoverà i propri vertici. Sarà un momento cruciale per capire la rotta che i vescovi intenderanno seguire ora che a Roma c’è un Papa americano di Chicago, difficilmente inseribile nelle tradizionali categorie che hanno dominato nei decenni post conciliari la vita della Chiesa, scissa tra progressisti e conservatori. I prossimi presidente e vicepresidente saranno eletti a scrutinio segreto tra i dieci preselezionati (coloro che cioè hanno passato una prima scrematura elettorale): se nessuno otterrà la metà più uno dei voti, si terrà una seconda votazione. Se il responso sarà ancora negativo, si andrà al ballottaggio fra i due che hanno ottenuto più consensi. E’ interessante notare che nella preselezione a dominare la decina sono presuli di orientamento conservatore, a riprova che nonostante la “cura” bergogliana con un profondo cambiamento della compagine episcopale che ha cercato di mettere in disparte i “guerrieri culturali” della stagione giovanpaolina, la base resta per lo più lontana dall’influenza liberal: ci sono mons. Robert E. Barron – il fondatore di “Word on Fire” e amico di Charlie Kirk, assai popolare sui social network –, mons. Paul S. Coakley, mons. Alexander K. Sample e mons. Kevin C. Rhoades, tutti e tre solidi esponenti conservatori. Ascrivibili tra i moderati sono l’arcivescovo di Filadelfia mons. Nelson J. Pérez, successore del combattivo Charles J. Chaput, e quello di Boston, mons. Richard G. Henning. Questi ultimi potrebbero ottenere diversi consensi fra chi preferirebbe un profilo più basso dell’episcopato sulla scena politica, cercando magari quell’unità perorata da Leone XIV sulle grandi questioni dal centro del dibattito pubblico ed ecclesiale, ma il fatto che siano di nomina recente – Pérez è a Filadelfia da cinque anni, Henning a Boston da uno – li rende sfavoriti. Di tendenza liberal e legati al cardinale di Chicago Blase Cupich sono mons. Charles C. Thompson di Indianapolis, mons. David J. Malloy di Rockford e soprattutto mons. Edward J. Weisenburger di Detroit. Quest’ultimo, successore del conservatore Allen H. Vigneron, pochi mesi dopo l’insediamento ha impostato una rivoluzione finita nel mirino dei settori più accesi della destra cattolica americana: strenuo oppositore della celebrazione della messa secondo l’uso antico, ha licenziato tre docenti al seminario locale perché rei di essersi opposti pubblicamente negli anni alle linee del pontificato di Francesco. Uno dei tre, il prof. Ralph C. Martin, ha spiegato che è stato il vescovo in persona a comunicargli l’interruzione del rapporto di lavoro, “non fornendomi i dettagli”, ma mostrando “preoccupazione rispetto alle mie prospettive teologiche”. Una soluzione che potrebbe attirare diversi consensi è quella del vescovo di Brownsville, mons. Daniel E. Flores, curatore del processo sinodale della Chiesa statunitense (processo che lì per la verità non sta lasciando tracce degne di nota) e molto attivo su alcune questioni sociali, come quella dei migranti. E’ considerato “teologicamente solido” da parte degli osservatori conservatori e secondo le voci di corridoio sarebbe stato tra i favoriti a una rapida successione al cardinale Timothy Dolan a New York se il pontificato di Francesco non si fosse interrotto il 21 aprile scorso.
A ogni modo è evidente che il tema dei migranti sarà centrale nelle discussioni della plenaria novembrina. Anche perché sulla riunione incombe il messaggio arrivato qualche giorno fa dal Vaticano, dove il Papa – ricevendo il vescovo di El Paso, mons. Mark J. Seitz – ha chiesto esplicitamente “l’unità della Chiesa” nell’affrontare una questione di “dignità umana” come quella dei migranti. La Chiesa, ha aggiunto Leone XIV, “non può rimanere in silenzio”, esortando quindi i vescovi a far sentire maggiormente la propria voce. E’ notevole che il Pontefice abbia pronunciato tali parole proprio davanti a mons. Seitz, che lo scorso inverno si smarcò dal presidente mons. Broglio nella risposta all’Amministrazione Trump fresca di ordini esecutivi restrittivi su migranti e rifugiati. Se Broglio, in una nota ufficiale, aveva espresso la “speranza” che tali provvedimenti potessero essere corretti, ben più duro era stato il comunicato del vescovo di El Paso, presidente della commissione per le Migrazioni della Conferenza episcopale: dopo essere entrato nel dettaglio delle misure firmate alla Casa Bianca – compreso il dispiegamento di militari lungo il confine con il Messico – sintetizzava tutto ciò come un “affronto a Dio”. Mentre i vescovi voteranno, sanno che un loro connazionale, a Roma, guarderà con attenzione quel che accadrà nella sala della plenaria.