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Il primo uomo moderno

Agostino, il santo inquieto divenuto sempre più un uomo comune. Un'omelia del prof. Ratzinger

Joseph Ratzinger

Nietzsche disse di non poter sopportarlo: gli pareva plebeo e comune. Ma proprio questa è la vera grandezza cristiana del vescovo d’Ippona. Per noi è divenuto come una finestra attraverso la quale guardiamo all’Eterno

Nelle chiese barocche della nostra patria bavarese, le pale d’altare che ne circoscrivono lo spazio interno assomigliano a delle porte che non tanto le delimitano e le isolano ma che – come nuovi inizi – le aprono a spazi più vasti e più veri: l’eucaristia che celebriamo sui nostri altari, infatti, non ruota su se stessa, ma è per così dire la soglia attraverso la quale la Chiesa, nel mezzo di questo mondo, può di continuo entrare nel mondo di Dio. Allo stesso modo, i santi raffigurati su quei dipinti non sono grandezze a se stanti; non sono, come disse una volta uno storico delle religioni, i successori degli dèi, per così dire soccorritori autonomi a  cui si ricorre nelle necessità, ritenendo che Dio, l’Eterno, non abbia  tempo per le nostre preoccupazioni oppure non le capisca. No: quei santi non sono a se stanti, sono invece una porta, una finestra che apre  al di là di se stessa, all’eternità di Dio. Nel mondo dei santi che noi  incontriamo durante l’anno liturgico, la semplice e incontemplabile luce di Dio viene, per così dire, scomposta nel prisma della nostra  storia umana, così da potere noi incontrare la gloria eterna e la luce di Dio nel mezzo del nostro mondo umano, nei nostri fratelli e nelle  sorelle umane.

 

I santi sono per così dire i nostri fratelli maggiori nella famiglia di Dio, che ci prendono per mano e vogliono guidarci, come dicendoci: “Se ce l’abbiamo fatta noi, perché non potresti farcela anche tu?”. Sono proprio parole così che Agostino, il santo di oggi, credette  di udire nell’attimo della sua conversione, e furono uno degli ultimi  incoraggiamenti di cui aveva bisogno per osare il salto nella fede, nell’amore di Dio. Superando la distanza di secoli, pochi altri santi  ci sono così vicini e rimangono tanto comprensibili come sant’Agostino, nelle cui opere incontriamo tutti gli abissi e le altezze dell’umano, tutti gli interrogativi, il cercare e l’indagare che anche oggi ci muovono. Giustamente lo si è chiamato il primo uomo moderno. Nacque in un tempo di crisi e di cambiamento molto simile al nostro, in un tempo in cui avere la fede non era una cosa ovvia, ma  doveva invece essere cercata e trovata attraversando tutti gli abissi  dell’umano. 

 

Agostino non divenne cristiano per nascita, ma lo divenne unicamente per conversione. E nelle due grandi conversioni che insieme  segnano le due grandi fasi della sua vita si manifestano ancora oggi,  anche per noi, il compito e il senso propri dell’essere cristiano: vale sempre infatti che un uomo non diviene cristiano per nascita, ma lo può divenire solo per conversione. Così come le acque di questo mondo, ubbidendo alla forza di gravità, scorrono naturalmente verso il basso e possono essere dominate dalle forze spirituali della  tecnica capaci di cambiarne il corso, così anche le acque dell’esistenza umana scorrono naturalmente verso il basso; e solo in virtù della conversione alla fede, alla speranza e all’amore, possono ricevere  quell’orientamento nuovo grazie al quale l’uomo acquisisce la sua vera umanità. Agostino è diventato cristiano per conversione: soffermiamoci un momento sulle due conversioni della sua vita così da comprendere in  modo nuovo anche la missione del nostro essere cristiani oggi.

 

La prima conversione è a grandi linee comunemente nota. Secondo  la consuetudine di quel tempo, da bambino Agostino non aveva ricevuto il battesimo, ma il sale del catecumenato, ed era stato così accolto provvisoriamente nella Chiesa. Aveva imparato a conoscere e amare Gesù Cristo e lo aveva invocato nelle sue piccole e grandi necessità di bambino. Ci commuove ancora oggi leggere nelle sue Confessioni di come spesso, al mattino, pregasse ardentemente e con insistenza Dio affinché quel giorno gli fossero risparmiate le bastonate a scuola. Ma poi diviene studente. Incontra l’alta scienza del suo tempo e a  confronto di questo grande sapere dell’Antichità, la Bibbia gli appare  come uno sciocco libro di favole non più degno della sua cultura gran de e illuminata. Aderisce prima al razionalismo manicheo e poi a quel lo scettico-accademico. Ma il suo cuore rimane vuoto. Giunge così a quella lacerazione interiore che infine lo condurrà al giardino della sua conversione, la lacerazione fra il tendere del suo cuore all’eterno e gli  ostacoli frapposti dalle passioni e dallo scetticismo accademico.

 

Ci racconta che un giorno in giardino si allontana dal suo amico Alipio per restare solo con la sua sofferenza, col suo combattimento  interiore e con la sua lacerazione. E in quel momento di estrema battaglia interiore, crede di sentire una voce di bambino che gli ripete più volte: “Tolle, lege – prendi, e leggi!”. Riflette se per caso sia qualche  filastrocca o gioco di bambini. Ma siccome non gli viene in mente nulla del genere, percepisce che quella voce riguarda lui, che è l’appello  a invertire la direzione della sua vita. Si alza, trova la Sacra Scrittura e  legge queste parole: “Rivestitevi del Signore Gesù” (Rm 13,14). E’ la svolta della sua esistenza. Comunque le si vogliano storicamente spiegare, di quelle parole di bambino – “Prendi, e leggi!” – Agostino ha veramente fatto il programma della sua vita. In quel momento ha veramente scoperto la Parola di Dio, e da allora in poi è rimasto ascoltatore della Parola, di continuo facendo sì che la Parola di Dio illuminasse la sua vita e le desse orientamento. In quel momento ha  come sperimentato nuovamente sulla sua persona la situazione ori ginaria di Adamo nel giardino dell’Eden. E in questa situazione originaria, quella del momento della decisione di Adamo, Agostino ha  trovato nella Parola di Dio l’albero della vita che gli ha donato quella vicinanza di Dio, quella comunione con Dio che Adamo invece per dette nel momento in cui volle arrivare a Dio con le proprie forze ed  essere uguale a Dio. 

 

Quando il vecchio Agostino scriverà la storia della sua vita, quella  canzone di bambino – “Tolle, lege – prendi, e leggi!” – gli avrà forse  riportato alla memoria anche le voci dei suoi ministranti che stava no vicino a lui, al vescovo, e dal leggìo proclamavano alla comunità  dei fedeli il Vangelo sul quale egli poi avrebbe tenuto l’omelia. Con  il racconto di quell’episodio voleva quasi dire ai fedeli: “Nella voce dei ministranti che vi leggono la Parola di Dio risuona anche per voi l’invito di quel bambino: ‘Tolle, lege – prendi, e leggi!’. Anche voi tutti, infatti, vi trovate nel momento della decisione, nel giardino della  decisione; la situazione originaria di Adamo non è risparmiata a nessuno, ognuno deve riviverla, deve nuovamente soffrirla, nuovamente superarla; quella voce di bambino si rivolge a tutti voi e vi dice dov’è  l’albero della vita: è nella Parola di Dio”. Quel giorno Agostino scoprì la Parola di Dio. Se ora riflettiamo su  di noi – perché tutto questo vale anche per noi – dovremmo arrossire nell’ammettere quanto vergognosamente poco l’abbiamo scoperta noi. Quanto tempo e quanta pazienza impieghiamo nella lettura di ri viste di secondo o terz’ordine, e Dio solo sa in quali altre cose ancora, e quanto poco ci preoccupiamo della Parola di Dio! Se non ne avessi mo mai sentito parlare e se per caso un giorno venissimo a sapere che  da qualche parte esiste un libro nel quale viene a noi la Parola di Dio stesso, cosa non faremmo per avere quel libro! Quel libro è in mezzo a noi, eppure non ci interessa, è come se non ci riguardasse. 

 

Questo momento diventi perciò un invito anche per noi: “Tolle,  lege!”; un invito a ritrovare anche noi la Parola di Dio come luce dei nostri giorni e come albero della vita. Per Agostino, la scoperta della Parola di Dio fu la decisione della sua vita e insieme la decisione per  l’invisibile. Sino a quel momento il visibile, con tutti i suoi mezzi e  con tutta la sua potenza, l’aveva talmente dominato da non osare egli  il salto verso l’invisibile. In quell’istante capì che è l’invisibile l’autenticamente reale e quello che veramente sostiene. Credo appunto che  questa sia la nostra medesima condizione oggi. Nella nostra epoca, la  pressione del visibile e dell’udibile è ancora aumentata. Gli urlatori e gli altoparlanti di questo mondo sono divenuti talmente potenti che  a stento abbiamo la forza di percepire Dio nel silenzio. E se a volte ci  illudiamo di essere diventati più assennati e più saggi perché prendiamo sul serio solo il visibile, dovremmo ammettere che si tratta in realtà  di una diminuzione della facoltà visiva del nostro cuore; ammettere che non riusciamo più a guardare al di là, all’invisibile e all’eterno  senza il quale il visibile non potrebbe essere e sussistere. Anche per  noi questo momento dovrebbe rappresentare un’esortazione a fidarci dell’invisibile, a riconoscere in esso ciò che è autenticamente reale e che veramente sostiene. 

 

Dopo la conversione, Agostino ritornò in Africa con i suoi parenti  e amici. Seguirono anni di vita felice in cui costituirono una specie  di comunità monastica e incominciarono a nutrirsi pienamente della  Parola di Dio, della bellezza, della verità. Solo la verità, l’ascolto della  Parola, avrebbe dovuto rappresentare il contenuto della loro vita e la  fonte della loro gioia. Ma le cose andarono diversamente e Agostino fu  costretto ad abbandonare questa strada. Un giorno, visitando Ippona, la grande città portuale dell’Africa settentrionale, entrò in chiesa e  sentì predicare l’anziano vescovo Valerio. Diceva, tra l’altro, di essere  vecchio e che, siccome era greco di nascita, trovava molta difficoltà  a predicare e già da tempo stava cercando un sacerdote che fosse in  grado di aiutarlo. In quello stesso istante nella chiesa si levò un grido tumultuoso: “Sia Agostino il nostro vescovo!”. Lo si afferrò e a nulla servì la sua resistenza fisica, il pianto, il cercare di difendersi: fu trascinato in prima fila e il vescovo Valerio confermò quel desiderio unanime. E così, del tutto contro sua volontà, Agostino fu ordinato sacerdote. 

 

Abbiamo un documento impressionante di quei giorni, una lettera  che poco dopo la sua ordinazione sacerdotale egli scrisse al vescovo  Valerio e in cui lo scongiurava di concedergli un periodo di ritiro per  prepararsi adeguatamente al ministero sacerdotale. In essa leggiamo:  “Mi sento come chi non ha mai imparato a tenere un remo in mano e  al quale è improvvisamente assegnato il posto al timone di una gran de nave. Per questo, alla mia ordinazione sacerdotale ho pianto in  silenzio…”.  A noi questo sembra molto strano: un uomo diventa sacerdote  contro la sua volontà e piange al momento della sua ordinazione. Ma proprio qui sta la grandezza di Agostino: ha accettato in obbedienza questa nuova svolta della sua vita, dandosi completamente al nuovo compito che gli veniva affidato. Da quel momento, infatti, terminava il  silenzio dell’immergersi nella Parola e il silenzio della contemplazione  che egli si era scelto come suo destino. Ora, invece, dal primo mattino  alla sera gli si dispiegava davanti tutto lo spettro delle necessità umane. Il campanello della sua casa suonava ininterrottamente: doveva  rappacificare i litiganti e consolare gli afflitti, doveva cioè semplice mente fare tutto quello che deve fare un sacerdote; e in più, secondo  l’ordinamento giuridico del tempo, Agostino aveva giurisdizione in tutte le controversie civili della sua città, in altre parole era colui che doveva confrontarsi con tutta l’umanità dei suoi simili.  

 

C’è un suo scritto che ci permette di comprendere in che modo  egli abbia potuto dominare spiritualmente questa situazione completamente nuova. Riflette su quel poema del Cantico dei Cantici in  cui lo sposo a tarda notte bussa alla porta della sposa che non vuole  aprirgli, dicendo: “Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?”. Agostino commenta: “Lo Sposo e sposa stanno per Cristo e la Chiesa, ma che significa che la Chiesa, aprendo la porta a Cristo, si sporca i piedi? Come è  possibile che la Chiesa non abbia alcuna voglia di aprire la porta a  Cristo?”. Risponde: “La Chiesa che si è ritirata nella tranquillità e non vuole essere disturbata è l’immagine di quei credenti che praticano il cristianesimo solo per se stessi, che vogliono tenere per sé la gioia del gustare la Parola di Dio e non vogliono essere disturbati dallo sporco di questo mondo”. 

 

Ma Cristo non ci dà una pace di questo tipo. Bussa alla porta della  nostra vita attraverso tutti quelli che sono alla ricerca, tutti quelli che sbagliano, che sono nel bisogno, e grida: “Aperi mihi et praedica me! Aprimi e predicami!”; Cristo viene a noi, bussa alla nostra porta e  ci attende negli uomini con le loro necessità, con la loro normalità e banalità. E’ per Lui che dobbiamo essere sempre e continuamente disposti a sporcarci i piedi con il sudiciume di questo mondo, è per Lui che dobbiamo essere sempre pronti ad abbandonare la gioia del  gustare la Parola e l’appagamento per quel che abbiamo e uscire fuori, affinché la Parola del Signore permei anche gli altri. 

 

Nietzsche una volta ha detto di non poter sopportare sant’Agostino, tanto gli pareva plebeo e comune. In quest’osservazione c’è indubbiamente qualcosa di giusto, ma sta proprio qui la vera grandezza  cristiana di sant’Agostino. Egli avrebbe potuto essere un aristocratico  dello spirito, ma, per amore di Cristo e degli uomini, nei quali vedeva venirgli incontro Cristo, ha abbandonato la torre d’avorio dell’alta spiritualità per essere totalmente uomo tra gli uomini, servo dei servi  di Dio. Per amore di Cristo, che non ha disdegnato di abbandonare  la gloria divina e di essere uomo come noi, egli ha sacrificato tutta la  sua cultura superiore ed è riuscito a portare ai suoi la Parola di Dio con semplicità e schiettezza sempre maggiori. Per amore suo, egli è  divenuto sempre più un uomo comune tra gli uomini, servitore di tutti  e in ciò veramente un santo. Perché la santità cristiana non consiste in  una qualche sovrumanità o in un talento e grandezza superiori che un altro non possiede. La santità cristiana è semplicemente l’obbedienza che si mette a disposizione là dove Dio ci chiama, quell’obbedienza  che non si affida alla propria grandezza, ma si affida alla grandezza  del nostro Dio e sa che proprio nel servire e nel perdersi lo si può veramente trovare. 

 

L’atteggiamento di fondo che sta alla base di ambedue le conversioni e  di ambedue le svolte – la conversione alla Parola e il suo mettersi al servizio degli altri con semplicità e gratuità – Agostino stesso una volta lo chiamò l’inquietudine del cuore. E’ quell’inquietudine che non permette all’uomo di trovare pace in sé e in quel che ha, ma che lo mantiene  sulla strada di quell’eterno che solo può dargli pace vera e soddisfazione  piena. Egli stesso ha descritto quest’inquietudine del cuore – che va  oltre tutto quanto è terreno protendendosi all’eterno – con un’immagine indimenticabile basata su un’esperienza che fece poco dopo la sua  conversione. Insieme ai suoi amici era giunto a Ostia – la grande città portuale alla foce del Tevere – per ritornare in Africa, a casa. Una sera con sua madre è appoggiato alla finestra prospiciente il giardino della casa  che li ospita e insieme contemplano il vasto mare che all’orizzonte si  unisce con il cielo azzurro. In quell’attimo di grande pace, devozione e dolcezza, in cui il loro sguardo è rivolto all’immensità, madre e figlio conversano sull’eternità di Dio. Si chiedono come sarà la vita  eterna – quando il cielo e il mare scompariranno e non ci sarà più né  passato né futuro, ma solo l’eterno presente di Dio. Agostino aggiunge: “In quell’istante ci fu concesso per un attimo di toccare il mistero  della vita eterna e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello  spirito”. Cinque giorni dopo sua madre fu colpita dalla malaria che  nel frattempo aveva trasformato Ostia in una città moribonda. Dopo nove giorni, Monica chiuse gli occhi per sempre. Ma quell’immagine  di pace – quel contemplare insieme il vasto mare, e attraverso la vastità del mare toccare l’eternità di Dio stesso – mai più si cancellò dalla  sua anima, si impresse in lui come una promessa, come un’immagine dell’eterno che mai può esserci tolto.  

 

Per noi Agostino stesso è divenuto come una finestra attraverso la  quale guardiamo all’Eterno. Chiediamo a Dio, al Signore, che voglia concedere anche a noi di toccare, almeno per un istante, quest’eternità di Dio e di lasciare lì avvinte le primizie dello spirito, affinché il  nostro cuore resti inquieto, rivolto all’eternità di Dio solo nella quale esso può trovare pace.

 

L’omelia qui pubblicata è presente sull’ultimo numero della rivista Vita e Pensiero (n. 4/2025 (luglio-agosto) con il titolo “Agostino: il primo uomo moderno. L’omelia di Joseph Ratzinger, risalente al 1965, è stata tradotta da Pietro Luca Azzaro, traduttore e curatore dell’opera omnia di Benedetto XVI.

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