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Che il pontificato abbia inizio

Nomine e grattacapi. I dossier sul tavolo di Leone XIV sono parecchi. Finito il tempo della riflessione, è il momento delle scelte. In quattro mesi, però, Prevost ha già indicato la strada che intende percorrere

Matteo Matzuzzi

Ieri, aprendo il Capitolo dell’Ordine agostiniano, il Papa ha detto: “L’unità sia un oggetto irrinunciabile dei vostri sforzi, ma non solo: sia anche il criterio di verifica del vostro agire e lavorare insieme, perché ciò che unisce è da Lui, ma ciò che divide non può esserlo”. Non era un messaggio diretto solo ai figli di sant’Agostino

Roma. Nel videomessaggio inviato ai confratelli agostiniani  di San Tommaso da Villanova, Papa Leone XIV ha spiegato che la sua estate a Castel Gandolfo è stata dedicata alla preghiera, al riposo e alla riflessione. Riflessione su quel che ci sarà da fare in autunno, sulle prime attese mosse  del pontificato. Le attendono prima di tutto i curiali, vescovi e cardinali, che si domandano cosa accadrà, chi arriverà e chi salterà. Con un misto di curiosità e – in qualche caso – di preoccupazione. Leone appare a molti di loro come una sfinge, imperscrutabile nei suoi desiderata e nelle sue linee guida. Mai una smorfia, un sopracciglio alzato, una battuta fuori posto. Sempre un volto sereno che dimostra pace e saldezza. Non se ne conoscono le intenzioni prossime, il che è arduo da comprendere, considerata l’elezione rapidissima dello scorso maggio, quasi che si fosse eletto il cardinale più noto del globo. Si scrutano le tabelle delle udienze, per capire quante volte riceve il dato cardinale o il tale monsignore, si passa la lente d’ingrandimento sulle foto per scorgere un sorriso in più, un afflato particolare con l’ospite. Si alza il volume degli audio pubblicati dai media vaticani per cogliere qualche frase utile a capire se chi viene ricevuto è nelle grazie particolari del Papa. Un’estate sospesa, insomma, come sovente accade all’inizio di un pontificato. E’ vero che Francesco fin dalla prima apparizione impresse una forma tutta sua all’ufficio cui era stato chiamato e fin dal primo “buonasera” si comprese che più d’una scossa avrebbe agitato la curia vaticana. Però le prime scelte vere arrivarono sul finire dell’estate e come oggi anche allora qualche cardinale faceva trapelare la propria insofferenza per la “lentezza” (dodici anni fa si trattava di sostituire il segretario di stato Tarcisio Bertone) che pareva caratterizzare l’azione di Jorge Mario Bergoglio. La storia avrebbe spazzato tali timori, come è noto.  

 

Eppure, in questi cento e più giorni, Leone ha mandato più d’un segnale, peraltro non sorprendente se si ricordano i suoi primi interventi. Ha ricevuto cardinali che erano stati relegati ai margini nel precedente pontificato (uno su tutti, il cardinale Raymond Leo Burke), ma ha ricevuto (proprio ieri) anche James Martin, attivista per la causa lgbtqi+.  Ha concesso udienza a Matteo Salvini, che Francesco non voleva vedere neppure in cartolina: si narra a tal proposito di un siparietto avvenuto a margine dei funerali del cardinale Achille Silvestrini, nell’agosto del 2019. Al Papa fu detto che il premier avrebbe voluto salutarlo e Francesco si sincerò che fosse davvero il premier (Giuseppe Conte) e non il vicepremier (Salvini). Solo ottenuta la rassicurazione, acconsentì alla stretta di mano. Leone ha ribaltato la narrazione vaticana sul conflitto russo-ucraino – lui, come si sa, pensa che quella putiniana sia “un’invasione imperialista” che comporta “crimini contro l’umanità” – ricevendo Zelensky e più d’una volta il capo e padre della Chiesa greco-cattolica locale. Ha evitato di parlare di genocidio in merito al dramma del vicino oriente ma ha pubblicamente denunciato gli eccessi del governo israeliano fino al punto di smentire la ricostruzione di Netanyahu sul cosiddetto “errore di tiro” che a luglio ha colpito la parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza. Il tutto senza prese di posizione rumorose, interviste o comparsate televisive. Non è un caso che  vi siano molti che notano la differenza d’approccio, sottolineando in diversi casi la scarsa incisività di Prevost rispetto all’impeto carismatico di Francesco, che con una battuta o uno sguardo era in grado di fornire titoli ai giornali per settimane, imponendosi con forza indiscutibile nello scenario pubblico e globale (“Chi sono io per giudicare?”, “Se uno tocca la mia mamma gli spetta un pugno”, per fare due esempi). 

 

I segnali dell’estate leonina sono improntati al rispetto di quell’auspicio categorico pronunciato davanti ai cardinali nella messa Pro ecclesia all’indomani dell’elezione: sparire perché rimanga Cristo. Che significa dare a Lui e a Lui soltanto lo spazio centrale. Tutto deve puntare lì e nulla deve distrarre. Ecco che allora si capisce anche quanto detto ai politici francesi, quando li ha esortati a dire “no, non posso” se i provvedimenti che si trovano davanti cozzano con la Verità. O quando davanti ai ministranti definisce “una disgrazia per la Chiesa” la mancanza di sacerdoti, incoraggiandoli a “scoprire la bellezza, la gioia e la necessità di una tale vocazione”. O, ancora, quando chiarisce che “solo Gesù viene a salvarci, nessun altro: san Pietro lo ha detto con forza: ‘Non c’è alcun altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini, per mezzo del quale dobbiamo essere salvati’”. 
E’ chiaramente questo il filo conduttore del pontificato, la lente attraverso cui dovrà essere letto tutto, scelte di governo comprese. Finora si è posto l’accento sulla “mitezza” del Papa, al punto da confonderla con la debolezza. Nell’epoca in cui tutto è immediato e dopo la stagione bergogliana caratterizzata non di rado da gesti impulsivi, la calma prevostiana può risultare ostica alla comprensione. Quasi fuori dal tempo, non sincronizzata con il mondo veloce dove tutto cambia con una rapidità forsennata. Eppure, altro non è che un ritorno ai ritmi consueti della Chiesa, che sono lenti. Ricordava lo storico Roberto de Mattei che perfino Pio X ci mise tre anni per condannare il modernismo, pur avendo idee chiarissime sulla questione. Insomma, cento giorni non sono nulla. Anche perché i capitoli su cui Leone XIV sarà chiamato a intervenire sono cruciali e vanno ben al di là della quiescenza di qualche cardinale. Si prenda ad esempio lo sviluppo del Cammino sinodale tedesco che tra pochi mesi, a gennaio, terrà una cruciale assemblea chiamata a valutare l’implementazione di quanto deciso ormai tempo fa. In un’intervista al quotidiano Kölner Stadt-Anzeiger, la presidente del potente Comitato centrale dei cattolici tedeschi, Irme Stetter-Karp, dopo aver biasimato “il sistema assolutistico e gerarchico” che governa la Chiesa, nonostante “il Sinodo universale abbia chiaramente affermato che il clericalismo debba essere superato”, mette pressione al Papa. Ricorda che l’allora cardinale Prevost si è sempre dimostrato nei colloqui “molto più aperto, interessato e disposto ad ascoltare rispetto a quelli che lo hanno preceduto”, quindi si dice “fiduciosa che riceveremo un sostegno da Roma”. Anche perché “Leone XIV ha chiaramente aderito alle decisioni del Sinodo mondiale” conclusosi nell’autunno del 2024. En passant, la presidente del Comitato chiede al Pontefice di sostituire rapidamente il cardinale arcivescovo di Colonia, Rainer Maria Woelki (uno dei quattro ostili al processo sinodale tedesco) perché ormai poco sintonizzato con le frequenze riformiste della Chiesa tedesca e della sua stessa diocesi.

 

Ma Leone avrà a che fare anche con la Chiesa americana, stretta fra l’abbraccio mortale a un Trump incontrollabile – più di quanto gli stessi vescovi pro life potessero pensare – e le derive woke che non risparmiano la religione cattolica, finita nel mirino di esaltati che non esitano a sparare nelle chiese, come accaduto in Minnesota. Senza dimenticare la postura della Chiesa nel caos di guerre nel Mediterraneo e ai confini dell’Europa. Leone XIV non è un rivoluzionario, non ne ha né l’indole né la voglia di farsi Robespierre per rovesciare tavoli. Ma non pare neanche incline a mettere la Barca in acqua senza sapere quale sia la meta da raggiungere e lasciandola in balìa di venti e marosi. Si vedrà. Quel che è certo è che tra poco si vedranno i risultati della riflessione estiva di questo Papa così poco conosciuto, molto imperscrutabile ma già tanto – e da tutti – strattonato per la candida talare. Ieri, aprendo il Capitolo dell’Ordine agostiniano, il Papa ha detto: “L’unità sia un oggetto irrinunciabile dei vostri sforzi, ma non solo: sia anche il criterio di verifica del vostro agire e lavorare insieme, perché ciò che unisce è da Lui, ma ciò che divide non può esserlo”. Non era un messaggio diretto solo ai figli di sant’Agostino.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.