
“Travisando la sua missione, cui fu attribuito un significato politico, ebrei e romani furono concordi nel neutralizzare questo turbatore dell’ordine costituito” (“The Passion”)
Processo a Gesù /3
Gesù davanti al sinedrio
Di tutta la sterminata letteratura sulla vita e la morte di Cristo, nessun argomento è più controverso della comparizione del Nazareno davanti al Sommo sacerdote dopo l’arresto. Accadde realmente? E perché? Ipotesi
È il processo più noto e più misterioso della storia. Si verificò circa duemila anni fa, a Gerusalemme. Imputato: Gesù Cristo, un predicatore poco più che trentenne che si riteneva figlio di Dio. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia, di raccontare in cinque puntate quei momenti e ciò che li accompagnò, mettendone in luce le stranezze, le imprecisioni, le certezze. La prima puntata è uscita l'8 agosto, la seconda il 15 agosto.
Gli “esprits forts”, atei impenitenti o agnostici scapestrati, avevano sempre ripudiato le pagine evangeliche come frutto di mitiche puerilità. Nel loro materialismo, generalmente grossolano, negavano persino la figura umana di Gesù, considerato come una proiezione sincretica di antichi santoni orientali. Dopo la elitaria parentesi dei deisti inglesi, prudentemente ambigui nel loro sostanziale scetticismo, filosofi come Bayle, Voltaire e lo stesso Hegel commentarono, con accenti diversi e comunque più seri, le vicende terrene del Nazareno, sotto un profilo storico e razionalistico. Tuttavia fu soltanto con David Strauss, nel 1835, che iniziò una critica metodologica alla vita e alla morte di Gesù. La sterminata letteratura che ne seguì si concentrò su molti argomenti, ma nessuno fu oggetto di interpretazioni difformi e contrastanti quanto la comparizione di Gesù davanti al Sinedrio. I punti fondamentali erano: 1) Se davvero Gesù fosse stato portato davanti a questo organo supremo;
2) Se, in caso affermativo, Gesù fosse stato sottoposto a un processo, e condannato per blasfemia;
3) Se il Sinedrio avesse competenza a irrogare ed eseguire pene capitali;
4) Se, in caso affermativo, queste dovessero essere sottoposte alla ratifica dell’autorità romana;
5) Quale sia stato il motivo di quella convocazione così inusuale.
Anche qui, le principali difficoltà derivavano proprio dalla narrazione evangelica: i sinottici infatti ne danno versioni diverse, e Giovanni le ignora integralmente. Con tutte le riserve già espresse sulle mie competenze, cercherò di riassumerle nella loro essenzialità.
Secondo Marco e Matteo, dopo il suo arresto Gesù fu subito portato nel palazzo del Grande Sacerdote, in presenza del Sinedrio riunito. Luca, al contrario, ci dice che Gesù trascorse l’intera notte con gli uomini che lo tenevano in custodia, “che lo percuotevano e lo insultavano”. La sua comparsa davanti al Sinedrio avvenne soltanto al sorgere del giorno. Giovanni, infine, racconta che Gesù fu dapprima condotto nella casa di Anna, suocero del sommo sacerdote Caifa (rectius: Caiafa) e successivamente davanti a quest’ultimo. Qui non accadde nulla, fino alla presentazione al prefetto romano.
Già da queste difformità si comprendono i motivi delle controversie che ne seguirono, e che non accennano a placarsi. E la prima riguarda ovviamente la sorte di Gesù subito dopo l’arresto. La versione tradizionale, consolidatasi nella cultura e nell’arte cristiana, vede in effetti Gesù immediatamente tradotto davanti al Sinedrio, dove viene interrogato e dichiarato reo di morte per essersi riconosciuto figlio di Dio. L’obiezione fondamentale, oltre alla ricordata incompatibilità con le versioni di Luca e di Giovanni, è che il Sinedrio non poteva riunirsi di notte, tantomeno in occasione della festività della Pasqua. Per giunta la casa del grande sacerdote, cui fanno riferimento gli evangelisti, non coincide affatto con il palazzo che ospitava il Sommo Consesso. Inoltre le vessazioni cui Gesù fu sottoposto sono collocate da Luca e da Marco in momenti e luoghi differenti. Ce n’è abbastanza per concludere che di questa fase sappiamo ben poco.
Anche ammesso che Gesù sia stato portato davanti al Sinedrio, di notte e in casa di Caiafa, la successiva narrazione evangelica solleva interrogativi ancora maggiori. Secondo Marco, i sacerdoti esperirono vari e inutili tentativi di trovare falsi testimoni contro Gesù; alla fine Caiafa chiese all’arrestato se fosse “il Cristo, figlio di Dio Benedetto”: Gesù rispose affermativamente, e “tutti sentenziarono che era reo di morte”. Ma tanto la procedura quanto la sentenza sono oggi considerate incompatibili con la legge giudaica di allora, per varie ragioni. Prima di tutto, perché la condanna capitale poteva essere irrogata solo sulla base della dichiarazione di almeno due testimoni oculari giuridicamente capaci, che nel caso, come si è visto, mancavano. In secondo luogo perché nessuno poteva esser condannato sull’unica base della propria confessione. E infine perché la “bestemmia” come delitto capitale, consisteva nel nominare il nome di Yahweh, prerogativa concessa esclusivamente al Sommo Sacerdote una volta all’anno nel Sancta Sanctorum del Tempio. A tacer del fatto che, come vedremo più avanti, la sanzione per tale reato era la lapidazione (raramente lo decapitazione o lo strangolamento), e non certo quella della crocifissione, tipicamente romana.
Supponiamo tuttavia che le cose siano andate come dice Marco. Si pone allora la terza domanda: il Sinedrio aveva o meno le competenze per irrogare una pena capitale? Qui le tesi sono addirittura trasversali. La critica più radicale ha sempre sostenuto che, dopo l’instaurazione del dominio romano, il governatore, o un suo delegato, avevano sul punto una giurisdizione esclusiva. Principio che sarebbe confermato dallo stesso Giovanni che attribuisce agli ebrei l’ammissione, davanti a Pilato, di non essere abilitati a mandare a morte nessuno. Di conseguenza la pronuncia di quest’ultimo sarebbe stata una sorta di exequatur, o di ratifica, di una risoluzione adottata dal Sinedrio. In realtà, come riconoscono numerosi autori di varia estrazione – ebrei, cristiani e agnostici – il Sinedrio conservava la prerogativa di giudicare secondo la legge ebraica i delitti di carattere religioso, come la profanazione del sabato, l’idolatria e appunto la blasfemia. Si trattava anzi di una competenza esclusiva, perché per i romani questi comportamenti erano indifferenti. Vi era poi quella che potremmo chiamare giurisdizione concorrente per reati comuni, come quelli contro il patrimonio. In tal caso il giudice variava secondo l’identità dell’accusato, (ebreo, romano o straniero) fermo restando che il prefetto, godendo di un’autorità assoluta, poteva pur sempre avocare la questione se in qualche modo interessava la sicurezza o comunque la vita politica.
Infine la procedura. Secondo Emil Schurer, noi conosciamo solo le procedure dei sinedri inferiori, tramandateci dalla Mishna, successive al disastro del 70 d.C. Tuttavia è ragionevole supporre che anche prima, davanti al Gran Sinedrio, queste regole fossero rispettate. Alcune le abbiamo viste, altre le vedremo. La più importante è comunque quella che la sentenza di assoluzione doveva esser pronunciata il giorno stesso del dibattimento, quella di condanna il giorno successivo. Un altro argomento per escludere che davanti al Sinedrio Gesù sia stato contemporaneamente giudicato e condannato.
Resta dunque la quarta domanda: ammesso che il Sinedrio avesse condannato Gesù per blasfemia, era necessario un avallo, o addirittura un secondo verdetto del magistrato romano? Anche qui le maggiori difficoltà derivano proprio dai testi canonici. Secondo Marco e Matteo gli anziani, scribi e sacerdoti, dopo aver messo in catene Gesù, lo condussero da Pilato che subito gli chiese “Sei tu il re dei giudei?”. Al che Gesù rispose il famoso “Su legeis”: “Tu lo dici” (Mc 15, 2). E’ un’espressione per certi aspetti ambigua che, come per le intercettazioni telefoniche, prende significato essenzialmente dal tono, (“Tu stesso lo dici , e io lo sono”. Oppure: “lo dici tu, ma io non lo sono affatto”). Vedremo più avanti le fasi di questa udienza, compreso l’episodio di Barabba. Per ora ci basti notare che le domande di Pilato non sembrano affatto riferirsi alla precedente sessione notturna del Sinedrio, conclusasi con la condanna per blasfemia, ma costituiscono piuttosto un interrogatorio autonomo di carattere essenzialmente politico, sull’autoproclamazione dell’imputato della sua autorità regale. Il che sarebbe perfettamente compatibile con l’interesse – e la giurisdizione – di Pilato, ma smentirebbe il suo ruolo di mero ratificatore di una sentenza giudaica.
Se la versione di Matteo concorda sostanzialmente con Marco, quella di Luca è assai differente. Prima di tutto perché l’affermazione di Gesù davanti al sinedrio è molto più netta: “Lo dite voi stessi; io lo sono”. Poi perché “l’assemblea alzatasi, lo condusse senza indugio davanti a Pilato”. E infine perché l’accusa rivolta al prigioniero è squisitamente politica: “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di esser il Cristo re” (Lc 23, 2-4). Il carattere messianico di Gesù ha qui perduto ogni connotato religioso, per trasformarsi in quello di un temibile eversore. Dunque non si chiede al magistrato di ratificare una sentenza altrimenti ineseguibile, ma di pronunciarsi sul reato di lesa maestà, punito con la crocifissione.
Fin qui i sinottici. Quanto a Giovanni, la narrazione prescinde totalmente dalla questione che ci siamo posta. Come vedremo esaminando il processo, l’interrogatorio di Pilato non fa nessun riferimento al verdetto di sacerdoti, anziani e scribi, ma costituisce un dialogo essenzialmente teologico, corredato di interventi esterni che mirano essenzialmente a scagionare Pilato incolpando esclusivamente gli ebrei.
Torniamo ora al Sinedrio. La domanda finale rimane ancora sospesa. Perché si riunì (se davvero si riunì) quella notte? Le varie risposte sono essenzialmente tre, con una quarta variante assai originale. La prima è quella della tradizionale ortodossia cattolica: si riunì per giudicare Gesù accusato di blasfemia, e il processo si concluse con una condanna a morte. La seconda, opposta, è che la morte sulla croce e il titulussulla stessa dimostrano l’esclusivo intervento romano: gli ebrei vi ebbero scarsa o nessuna parte, e si limitarono quindi a custodire l’arrestato, in attesa di deferirlo, il mattino seguente, a Pilato. La terza ipotesi, intermedia, è che la classe dominante giudaica, allarmata dalle intemperanze di Gesù e timorosa della reazione dell’occupante, lo abbia denunciato per evitare guai maggiori. L’arresto del solo Profeta, e non dell’intero seguito dei suoi discepoli, dimostrerebbe che giudei e romani preferirono, per ragioni di ordine pubblico, ricorrere a un’operazione limitata. Insomma la detenzione di Gesù sarebbe stata una sorta di fermo di polizia.
Una quarta interpretazione, rimasta isolata ma estremamente suggestiva, è stata fornita negli anni Novanta da Chaim Cohen, già presidente della Corte Suprema di Israele, intellettuale di alta dottrina giuridica e religiosa. Secondo il magistrato, il Sinedrio dopo avere fatto venire Gesù al suo cospetto avrebbe tentato vanamente di convincerlo a rinunciare alla sua attività di proselitismo e predicazione, che stava suscitando funesti sospetti presso i romani. A questi ultimi bastava poco per intervenire con severità verso chiunque pretendesse alla regalità, e nella loro visione pragmatica e poco speculativa non distinguevano tra regno di Dio, regno dei cieli e regno della Palestina. Il gesto disperato di Caiafa che si straccia le vesti davanti all’ostinazione di Gesù non sarebbe altro che la rabbia, o lo sconforto, per non esser riuscito a convincere quel rivoluzionario che la sua attività stava compromettendo il faticoso equilibrio raggiunto tra romani ed ebrei.
Questa ricostruzione, assai suggestiva, è rimasta isolata. Per quanto sia legittimo e doveroso difendere i giudei di Gerusalemme dall’accusa infamante di deicidio, che tante sofferenze ha loro provocato, nessuno ha mai avuto l’ardire di sostenere che i reggitori del Tempio fossero intervenuti in difesa di Gesù che aveva addirittura violato la sacralità di quel luogo benedetto. Di vero, o di altamente verosimile, la tesi di Cohen contiene tuttavia un’osservazione: che i responsabili della comunità gerosolimitana erano estremamente allarmati per l’apparizione di questo profeta che raccoglieva centinaia di proseliti, contestava alcune ritualità consolidate e predicava l’avvento di un mondo nuovo, pericolosamente assimilabile a una rivoluzione politica. E’ quindi plausibile che, per evitare un radicale intervento romano, com’era avvenuto negli anni precedenti, e come sarebbe avvenuto con Tito anni dopo, preferissero sacrificare subito il sovversivo agitatore prima che Pilato scatenasse la sua reazione punitiva in modo esteso e indiscriminato.
E questa è, probabilmente, la vera ragione della riunione svoltasi quella notte davanti ai maggiorenti israeliani. Gesù era stato arrestato da una forza congiunta giudea e romana, quindi su mandato del rappresentante imperiale, relativo a un reato di competenza romana. L’intervento del cosiddetto “Sinedrio” fu dunque una semplice custodia, durante la quale Caiafa e i suoi colleghi cercarono di circoscrivere i sospetti di Pilato alla sola persona di Gesù. Soluzione confermata sia dalle parole di Caiafa “Voi non capite nulla e non considerate che a noi conviene che un solo uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione (Gv 50)”. Un’altra circostanza depone a favore di questa tesi: gli apostoli e gli amici di Gesù, benché armati, riuscirono a fuggire, e non risulta che successivamente siano stati perseguiti. Al contrario, questa comunità, guidata da Giacomo “il Giusto” sopravvisse per alcuni decenni indisturbata. Il sacrificio di Cristo, che per noi cattolici è redenzione dei peccati del mondo, per Caiafa – e probabilmente anche Pilato – era un mezzo per evitare un inizio di guerra civile.
Questa ricostruzione è compatibile con la versione di Luca, che omette completamente la fase del Sinedrio, e si armonizza con l’immediata presentazione dell’imputato davanti al giudice. Il governatore imperiale era ovviamente già stato informato che in Galilea un affascinante predicatore aveva raccolto folle di proseliti, sia con ogni sorta di prodigi, sia con una prospettazione apocalittica di un imminente regno a venire. Finché questa attività era stata circoscritta a quella zona periferica, ci si era limitati a un generico controllo di ordinaria amministrazione; ma quando il predicatore arrivò a Gerusalemme, durante il periodo pasquale ricco di fermenti e di tensioni, la vigilanza fu intensificata. Il sospetto diventò certezza quando Gesù, con la sua irruzione al Tempio, entrò in conflitto con l’apparato sacerdotale, e soprattutto quando cominciò a circolare l’avvento di un nuovo regno. Poco importava che nella visione del suo ideatore questa realtà fosse squisitamente spirituale ed escatologica: nella cultura ebraica il Messia era anche un condottiero militare che avrebbe riportato Israele alle sue primitive grandezze, liberandolo dal giogo dei romani. L’apparato sacerdotale era anche più allarmato del prefetto. Le precedenti rivolte erano state spente nel sangue – Quintilio Varo pochi anni prima aveva crocifisso oltre duemila rivoltosi – e non v’era alcuna possibilità di sconfiggere le truppe imperiali. La guerriglia degli zeloti, che uccidevano e scomparivano, provocava solo rappresaglie e disordini, contro i quali Anna, Caiafa e gli altri anziani predicavano invano. Fu la coincidenza di questi interessi a determinare il destino di Gesù. Travisando la sua missione, cui entrambi attribuirono un significato politico, ebrei e romani furono concordi nel neutralizzare questo turbatore dell’ordine costituito. Era difficile individuarlo, perché si spostava di continuo, e ancor più difficile arrestarlo, perché godeva del favore popolare ed era protetto da compagni armati. Quest’ultima circostanza è dimostrata non solo dalla reazione di Pietro, ma dalle stesse parole di Gesù sopra citate: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una bisaccia; e chi non ha una spada ,venda il mantello e ne compri una” (Lc 22, 36).
Forse fu necessario l’intervento di uno degli stessi apostoli, come abbiamo visto esaminando il ruolo di Giuda, per seguirne i movimenti e catturarlo di notte, evitando tumulti e resistenze. L’arresto fu operato congiuntamente da romani ed ebrei: i primi avevano la forza, i secondi le informazioni. Catturato Gesù, e messi in fuga i suoi accoliti, entrambe le autorità si ritennero soddisfatte. Fu eseguita una breve istruttoria presso il Gran sacerdote, probabilmente per verificare l’identità e sentirne, sommariamente le difese. Nessuna decisione fu adottata se non quella, conforme al mandato di arresto, di portare Gesù davanti al giudice come nell’odierno rito direttissimo. Pilato era già lì ad aspettarlo. Era l’ora terza.
(3. continua)