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Un mistero chiamato Giuda

Carlo Nordio

Nella tradizione cristiana, è il simbolo del tradimento. Della sua vicenda non sappiamo nulla, a cominciare dal vero nome. Eppure, senza di lui, la redenzione della Croce sarebbe stata impossibile

Nella consolidata tradizione cristiana, Giuda rappresenta il traditore più abietto, che dopo aver venduto il Maestro per trenta denari, si impiccò sopraffatto dal rimorso. Finì all’Inferno, dove Dante lo fece divorare, per l’eternità, dalle fauci di Lucifero. Il suo peccato più grave, ci insegna(va)  il catechismo,  non fu  tanto l’infedeltà verso Cristo  quanto la disperazione e la sfiducia nella misericordia del Signore.  L’interesse che questa figura ambigua ha suscitato nella letteratura, nell’arte e nel cinema è superato solo da quello dedicatogli dalla critica neotestamentaria,  che ne ha fornito le interpretazioni  più estreme. Da una parte si è sostenuto che non sia mai esistito, e costituisca la proiezione di una profezia biblica. All’opposto, si è detto che Giuda era un terrorista zelota che, deluso dal disinteresse del Maestro a ogni azione rivoluzionaria, lo consegnò, per vendetta, alla polizia ebraica e a quella romana. Il lettore interessato può impiegare un’intera vita a leggere le centinaia di pubblicazioni scritte sul punto. Qui ci limitiamo a riassumere le più importanti. 


La critica più radicale sostiene che di lui non sappiamo assolutamente nulla, a cominciare dal nome. Alcuni ipotizzano che “Iscariota” tragga origine dal suo  luogo di nascita, Keruot o Karioth; Wellhausen lo definisce un soprannome che indica un bandito; Julicher la definisce “un’invenzione posteriore”. La ricostruzione più suggestiva lo ricollega all’Ekariot, (in latino “sicarius”) il terrorista che, armato di pugnale, uccideva i compatrioti collaborazionisti dei romani. Anche sui motivi del tradimento sono state avanzate numerose obiezioni: quella tradizionale, della venalità dell’apostolo, è stata smontata da David Strauss: “Se Giuda fosse stato spinto dalla cupidigia avrebbe trovato maggior profitto a rubare la cassa comune”. Guignebert è forse il più tranchant: “Pur combinandole tutte insieme – cupidigia, ambizione, gelosia, paura, sfiducia – e gonfiandole il più possibile con epiteti vari, da qualunque parte ci si rigiri il tradimento appare come immotivato, inutile, incomprensibile”.


Il fatto è che se la vicenda di Giuda, come raccontata dai Vangeli, appare storicamente poco credibile, ancor meno credibile è che sia stata inventata di sana pianta. L’esegetica più elementare ci insegna che le interpolazioni avvengono nell’interesse del redattore, (tipiche  quelle del “testimonium flavianum”) mentre il comportamento criminale di un apostolo scelto dallo stesso Maestro è incompatibile con qualsiasi intento apologetico. Al contrario, il ruolo di Giuda ha costituito a lungo un motivo di “orribile scandalo”, e di riflessione dolorosa, della teologia cattolica. E, come osservò Theodor Keim, “se si fosse potuto dimostrare che il tradimento di Giuda  era avvenuto solo nella fantasia dei cristiani, si sarebbe tolto un gravissimo peso dal cuore del cristianesimo” . Ma il quesito più insolubile, al quale nemmeno oggi è stata data una risposta, è la dissonanza tra la preveggenza divina e l’inserimento tra i dodici apostoli di un elemento che si sarebbe comportato da traditore. Anche se questo è un aspetto dottrinale che esula dal nostro compito, nondimeno la condotta di Giuda e i suoi effetti nella condanna di Gesù pongono, e porranno sempre la domanda cruciale: c’era proprio bisogno, per attuare il disegno divino della redenzione, di valersi personaggi così complessi, di cui Dio conosceva le debolezze e i peccati? Alcuni teologi, proprio partendo da questa considerazione, hanno parzialmente riabilitato la figura di Giuda. Resta la conclusione che, con tutte le incertezze del caso, questo  personaggio ha un fondamento di concretezza, che è possibile almeno in parte ricostruire.


Anche qui, dobbiamo partire dai vangeli. I sinottici concordano in una congiura tra Giuda e i capi dei sacerdoti  (Mt 26,14; Mc 14,10; Lc 22, 4) con la pattuizione dei famosi trenta denari. Questa cospirazione tuttavia scompare nel vangelo di Giovanni, dove l’iniziativa è affidata a Satana che si sarebbe insinuato nel cuore dell’apostolo  fedifrago. Non è una contraddizione da poco. La versione giovannea, essenzialmente teologica o, se preferiamo, allegorica, mira ad affermare la realizzazione di varie profezie, e quindi si svincola da scrupoli di verosimiglianza. Ma proprio per questo è anche immune da quelle critiche che inevitabilmente accompagnano ogni pretesa di ragionevole credibilità, come quella che non v’era alcun bisogno di servirsi di un infiltrato per arrestare un individuo che predicava pubblicamente e pacificamente. La risposta tradizionale data a questa osservazione è che i capi dei sacerdoti, temendo una sollevazione popolare nel caso di una cattura di Gesù alla luce del giorno, preferirono prenderlo di notte, col favore delle tenebre e  in un luogo isolato. Questa spiegazione crea comunque un interrogativo ulteriore: se Gesù godeva di un consenso così diffuso, perché poche ore dopo l’arresto il popolaccio gli preferì Barabba, ed arrivò minacciare Pilato di tradimento se non lo avesse crocifisso?  Come si vede, ogni risposta pone domande nuove. Ma torniamo a Giuda e alla versione sinottica.


Ammettendo che vi sia stato un accordo per la consegna di Gesù alla gerarchia sacerdotale, esso  dev’essere avvenuto dopo l’emissione di un provvedimento più o meno formale. Ma se, come abbiamo visto, un tale ordine proveniva (anche) dall’autorità  romana, che intervenne di concerto con la turba giudea, dobbiamo presumere che anche il precedente accordo fosse stato bilaterale, e che quindi Giuda simpatizzasse,  pur senza essere un collaborazionista, con la causa romana. Un’ipotesi estremamente improbabile, che va comunque analizzata partendo dalle motivazioni del tradimento dell’apostolo. Scartata, per le ragioni esposte da Strauss, la mera cupidigia, rimane l’opzione del conflitto politico. E qui le interpretazioni sono due. La prima è che Giuda fosse uno zelota, cioè un membro di quella resistenza armata che mirava a liberare la Palestina dal giogo romano con l’unico mezzo da sempre impiegato dai ribelli contro le forze occupanti: la guerriglia e l’assassinio. Giuseppe Flavio ci narra come queste rivolte fossero continue, e che le rappresaglie romane le sopprimessero con crudeltà programmata: Quintilio Varo crocifisse in una sola volta – si presume senza processo – più di duemila  “briganti”. Le rivolte continuarono anche dopo l’assedio di Gerusalemme da parte di Tito, finché Adriano risolse il problema con una soluzione finale che cambiò addirittura il nome di Gerusalemme, diventata Aelia Capitolina.  


Che tra gli apostoli vi fossero dei simpatizzanti di questo movimento violento è fuor di dubbio: lo stesso evangelista definisce Simone cananeo “lo zelota”. Lo era anche Giuda? In questo senso vi è l’autorevolissima  tesi di Benedetto XVI,  che il voltafaccia di Giuda sarebbe stato motivato non dall’avidità ma dalle sue aspettative politiche deluse. Avendo riposto nel Messia la fede di una riscossa nazionalista, Giuda si sarebbe sentito ingannato dopo aver compreso che il messaggio del Maestro  era esclusivamente morale, e che il Regno promesso aveva un significato essenzialmente redentivo, se non proprio escatologico. E’ un’opinione plausibile, che tuttavia confligge con il presupposto dello stesso tradimento: perché consegnare alla giustizia romana un predicatore che si opponeva alla rivolta armata? Sarebbe stato più semplice ucciderlo, oppure isolarlo: ancor più difficile sarebbe stato trovare le prove del suo crimine. Se poi, come è narrato dai sinottici, Gesù era entrato a Gerusalemme fra il tripudio popolare, il vile tradimento proprio di uno zelota avrebbe alienato ogni residua simpatia per la causa irredentista. Senza contare che i vertici religiosi, da Anna a Caiafa, detestavano gli zeloti che consideravano terroristi creatori di guai e quindi difficilmente avrebbero accettato la collaborazione di uno di loro per eliminare proprio quel Gesù che non ne condivideva le velleità rivoluzionarie. 
Se dunque vi fu una denuncia di Giuda, la motivazione dovette esser diversa, e probabilmente opposta: la necessità di fermare l’operato di un predicatore che la classe dirigente gerosolimitana, e la stessa autorità romana, iniziavano a considerare un sobillatore pericoloso. Questa interpretazione permetterebbe di risolvere alcune delle incongruenze riscontrate nelle varie versioni, e renderebbe compatibile l’esecuzione dell’arresto notturno a Getsemani con quello che, con una certa enfatizzazione, è stato definito il bacio di Giuda. 


Bisogna partire non dal messaggio che Gesù intese diffondere, ma dal modo in cui esso fu interpretato. Secondo la tesi di Weiss e di Schweitzer (qui condivise) il Regno predicato da Gesù era di natura esclusivamente morale, prodromico a un epilogo apocalittico con l’avvento definitivo del Padre. Gesù era perfettamente indifferente alle vicende mondane, e massimamente a quelle politiche. L’idea che fosse un rivoluzionario socialista è un wishful thinking di qualche marxista nostalgico e deluso. Gesù si disinteressava persino del lavoro e delle più elementari regole di equità: infatti giustifica il padrone che retribuisce con la stessa paga il vignaiolo che ha lavorato un’ora e quello che ha sgobbato dalla mattina alla sera, perché “del suo denaro può fare ciò che vuole”. (Mt 20, 1-16) Gesù non solo  ammonisce i discepoli a non preoccuparsi nemmeno del domani, né del mangiare  del bere o del vestire,  ma li invita ad affidarsi al Padre, come gli uccelli del cielo (Mt 6, 25-34) . Questo non è propriamente  un messaggio sindacale. Quanto poi a una sua iniziativa armata, essa  è decisamente smentita dal suo messaggio globale, incentrato sull’amore verso i nemici. 


Ma se il Regno di Dio, o Regno dei  Cieli, assumeva per Lui un significato esclusivamente escatologico, non è affatto detto che così fosse compreso da chi ne ascoltava le prediche e si eccitava nell’entusiasmo popolare che queste sollevavano. La moltiplicazione dei pani e dei pesci è oggi da molti interpretata come il  momento di svolta del ruolo di Gesù e della reazione da parte della folla entusiasta. Quale che sia la fondatezza storica di un simile miracolo, è certo che, per suggestione  nel percepire, o enfatizzazione nel raccontare, ne risulta una rappresentazione di Gesù come il Messia, investito di questo titolo  o comunque ad esso candidato. Ma nella tradizione giudaica la figura messianica era inscindibilmente connessa a un’iniziativa politica, volta a ripristinare la sovranità di Israele. Benché gli ebrei, a differenza dei greci, non amassero diffondersi in speculazioni astratte sui fondamenti del potere e la legittimazione dello stato, nondimeno erano radicati nel convincimento che l’atteso leader religioso rivestisse anche un ruolo militare che avrebbe riportato, come un nuovo Maccabeo, una schiacciante vittoria sul Satana romano. Gesù sicuramente intuì questo equivoco, e questo spiega la sua riluttanza a farsi re e la solitaria fuga sulla montagna (Gv 6, 1-15). Tuttavia la sua missione prevedeva l’ingresso a Gerusalemme, da dove la Buona Novella avrebbe coinvolto l’intero gregge di Israele in una radicale rigenerazione spirituale, nell’attesa dell’imminente Regno di Dio. La sua entrata nella Capitale della Giudea fu sicuramente un evento straordinario.

Ma come sollevò l’entusiasmo del popolo, così allarmò le gerarchie sacerdotali, che vi videro una minaccia non tanto all’ortodossia religiosa quanto al precario equilibrio con l’autorità romana. Nemmeno quest’ultima  restò  indifferente a una simile manifestazione di consenso, che poteva sempre celare il pericolo di iniziative turbolente. La situazione si aggravò quando, poche ore dopo, Gesù fece irruzione nel Tempio. Anche qui, una volta depurato l’episodio delle sedimentazioni depositate dalla patristica  e dall’agiografia, residua un comportamento che, se nelle intenzioni di Gesù era eticamente monitorio, fu avvertito come una seria minaccia all’ordine pubblico. Probabilmente fu in  quel momento che le autorità ebraiche e quelle romane considerarono l’idea di indagare su questo intraprendente ed affascinante galileo. Ma anche Gesù  e gli apostoli, dovettero percepire questa pericolosa novità. Forse si erano esposti troppo nei confronti dei sacerdoti e del governatore, e si erano inimicati entrambi. Forse era necessario un momento di pausa e di isolamento. Tuttavia la micidiale macchina romana si era già messa in modo, e qualche affermazione di Gesù, unita all’aspettativa messianica da lui suscitata, era più che sufficiente per integrare il crimen lesae maiestatis che spediva  i sediziosi direttamente sulla croce. Molti autori si sono chiesti il perché del raduno a Getsemani proprio la sera della vigilia della Pasqua, quando tradizionalmente tutti se ne stavano insieme al riparo, raccolti nella preghiera. La risposta quasi unanime è che si trattava di un nascondiglio, perché il gruppo si sentiva braccato.

Quel bosco buio e poco frequentato poteva da un lato raffreddare gli animi, e dall’altro  costituire una base di  partenza per un prudente rientro in Galilea, dove Gesù aveva dato il prossimo appuntamento.
Tuttavia Gesù era un ricercato, e doveva  essere catturato e giudicato. Per la classe sacerdotale, se fosse stato riconosciuto innocente dal giudice romano tutto si sarebbe risolto per il meglio. Se invece fosse stato condannato, il suo sacrificio avrebbe evitato una repressione allargata, come ce n’erano state tante, e come purtroppo si sarebbero ripetute. Per questo Caiafa ammonì i suoi: “Voi non capite nulla e non considerate che a noi conviene che un solo uomo muoia per il popolo  e non perisca tutta la nazione (Gv 11,50)”. Probabilmente la figura di Giuda è intervenuta qui. Se gli apostoli – molti dei quali, ricordiamolo, erano armati – si erano eclissati raccogliendosi in un luogo ritenuto sicuro, solo uno di loro poteva condurre la turba e la coorte per sorprenderli nel momento del raduno, e individuarne il capo. Giuda si prestò a questa delazione: non sapremo mai se per delusione, cupidigia, gelosia o altro. Ma sicuramente fu d’accordo con Caiafa, che solo portando a giudizio il Maestro si sarebbe evitato un crudele intervento romano. Per lo storico, questa è la più plausibile, o la meno incomprensibile, di tutte le interpretazioni. Per il cristiano, tuttavia, la figura di Giuda rimane una componente essenziale del processo a Gesù e del suo sacrificio. Senza di lui, la redenzione della Croce sarebbe stata impossibile. Come Anna, Caiafa e Pilato, anche Giuda si inserisce come protagonista nel  mistero della Redenzione. (2. continua)

 


 
E’ il processo più noto e più misterioso della storia. Si verificò circa duemila anni fa, a Gerusalemme. Imputato: Gesù Cristo, un predicatore poco più che trentenne che si riteneva figlio di Dio. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia, di raccontare in cinque puntate quei momenti e ciò che li accompagnò, mettendone in luce le stranezze, le imprecisioni, le certezze. La prima puntata, “L'imputato è figlio di Dio”, è uscita “08/08/2025”.

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