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la riflessione

Quel che la morte di don Matteo Balzano fa ronzare in testa come uno sciame irrequieto

don Paolo Asolan

Il suicidio del sacerdote di Cannobio richiama il bisogno di ascolto, vicinanza e sostegno reale per chi vive il ministero. La fragilità umana e la necessità di relazioni autentiche nella Chiesa

Hai voglia a dire che questo è il tempo del silenzio e del rispetto. Lo è, senza dubbio: ma dal virale diffondersi della notizia della morte di don Matteo, questo è anche un tempo nel quale abbiamo bisogno di ritrovare un filo al quale aggrapparci. Come scriveva il teologo e rettore dei seminari milanesi Luigi Serenthà, tra il possibile rischio di cadere in parole ovvie e convenzionali e l’impossibile impresa di addentrarsi in spiegazioni che vengano a capo del “perché?”, è possibile ricorrere allo strumento umile della risonanza, che non scoraggia il rischio del confronto personale con un tema, ma è al tempo stesso consapevole del limite che quell’impresa ha. Perché siamo umani e non bestie, e abbiamo comunque bisogno di qualche luce.

 
Una prima risonanza potrebbe essere una frase tanto ovvia quanto presupposta e sbrigativa: “Anche i preti sono uomini come tutti gli altri”. Vero. Condividiamo le stesse fragilità di ogni altro essere umano, l’uguale necessità della formazione continua e prima ancora della relazione che ci riconosca nel profondo, per quello che siamo e non solo per quello che facciamo. Necessitiamo di una conoscenza realistica, che non rimuova né spiritualizzi nulla, neppure il nero marcio che c’è in noi, quel negativo spaventoso che viene dalla ferita che ha cambiato l’essere umano dall’origine, rendendogli difficile la fede, la speranza, la carità, la gioia del Vangelo. Facendogli preferire la morte alla vita. Ce ne dovremmo ricordare non solo adesso per don Matteo, ma per ogni creatura messa di fronte a un dolore che arriva a vivere senza speranza: c’è una soglia dolorosissima, un caso serio, rispetto al quale chiunque, anche un prete, può cadere al di là. Abbiamo bisogno di un Salvatore che ci raggiunga lì dove forse nessun altro ha mai avuto accesso: e abbiamo bisogno di credergli nonostante tutto, anche contro ogni speranza, lasciando che i nostri bisogni più profondi siano tirati fuori ed evangelizzati, visti e conosciuti con lo sguardo di Cristo. Fidandoci più di lui che dei giudizi della gente o dei nostri confratelli, o da quelli che si aspettano da noi l’esecuzione e l’interpretazione di un ruolo, nel quale certe difficoltà non sono né previste né ammesse.

 
Una seconda risonanza allarga il cerchio: “Ma chi è che si prendeva cura di lui? Non aveva nessuno vicino a sostenerlo?”. La questione è spinosa, ci siamo trovati dentro tutti: si può aiutare qualcuno che magari non vuole essere aiutato? Qualcuno che non ha coscienza della sua fragilità, ovvero ne ha fin troppa e vive nella vergogna e nella negazione di sé? Nella paura di esistere? Queste paure sono amplificate dall’irrilevanza nel quale spessissimo il ministero oggi si trova in mezzo; dalle riforme pastorali che stentano, e che producono un carico di lavoro sempre più pesante (insensato?) per tutti; dall’esperienza di non essere sostenuti e voluti bene da chi per primo ce lo dovrebbe garantire: il nostro vescovo e le nostre comunità. Non sappiamo nulla di don Matteo, e – ripetiamo – non stiamo parlando di lui: ci muoviamo entro quelle risonanze che la sua morte come uno sciame irrequieto fa ronzare per la testa. Ma quanti di noi alla domanda di cui sopra potrebbero rispondere con un “no” rotondo e rassegnato? E quanti invece con un “sì” felice e rassicurante?


Quanti di noi possono contare su di una paternità esercitata, passata al vaglio delle prove, fatta di una comprensione grande quanto tutto l’umanamente possibile? Ci sono pastori che dovrebbero fare questo per dovere di ministero o di ufficio, che magari ti ascoltano e che ci provano, ma che non escono mai dal perimetro di una valutazione morale, o della decisione sul da farsi. Non sono cioè preoccupati di creare veramente una relazione da persona a persona, di incontrare nel cuore/coscienza profonda il confratello che hanno davanti: il problema da risolvere viene comunque prima, specialmente se è di natura amministrativa/economica. Arrivano anche a darti delle indicazioni rispetto al problema fastidioso da risolvere per il quale ti sei rivolto a loro; ma se non hai problemi da risolvere e nemmeno ti fai vivo, rischi di restare da solo, o di non essere mai visto da nessuno dei tuoi superiori nel cuore di te. Il sistema rimane normativo e accentratore, rispetto ad un contesto fattosi invece assai complesso, difficile da fronteggiare per chiunque, sfuggente a qualunque razionalizzazione, dove non basta eseguire gli ordini o ripetere quello che si è sempre fatto. La terza risonanza potrebbe suonare: “Cosa c’è da cambiare in tutto questo? Cosa c’è di personale (perciò irriducibile) e cosa invece di strutturale (cioè riformabile e rivedibile)? Cosa si è fatto obsoleto al punto da consumare slanci generosi in frustrazioni pericolosissime? In vite inautentiche, che recitano una parte finché non succede qualcosa di più performante/interessante rispetto a ciò che si è vissuto e imparato in seminario?”.


Qui ci fermiamo. Le risonanze non sarebbero uno strumento adeguato a rispondere a domande del genere. Nell’Istituto Pastorale dell’Università Lateranense questioni come queste sono pane quotidiano della ricerca accademica. Possiamo soltanto sommessamente suggerire quanto rimanga importante lo studio, la preparazione, i tempi di digestione e di assimilazione del vissuto pastorale (dalle confessioni all’accompagnamento delle situazioni difficili, che espongono a stress emotivi da non sottovalutare), la messa a punto di quegli strumenti senza i quali qualunque idea di riforma della vita e della evangelizzazione della Chiesa finirebbe per diventare una parola retorica.


C’è però un’ultima risonanza da appuntare: una parola di Cristo che risuona divina dentro a vicende del genere, e alla quale noi stessi avremo sicuramente fatto riferimento celebrando funerali di fratelli e sorelle venuti a mancare al modo in cui è venuto a mancare don Matteo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò ristoro”. Aiutiamoci a dare carne e sangue a queste parole: le nostre. Non potremmo forse risolvere tutto e sempre efficacemente o con competenza, ma essere di ristoro questo sì. Lo possiamo essere in ogni momento.

 

don Paolo Asolan, preside Istituto Pastorale Pontificia Università Lateranense

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