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Il problema americano di Leone XIV
Più che i rapporti con Trump, tutti da verificare, il nuovo Papa si trova davanti una Chiesa statunitense polarizzata dal pontificato di Francesco
Prevost è molto legato al cardinale Cupich, ma è considerato pragmatico: più che intestarsi battaglie, è prevedibile che cercherà di anticiparle, creando i presupposti per compromessi e riflessioni. L’ha fatto anche in relazione al Cammino sinodale tedesco, che l’ha visto coinvolto nella delegazione curiale che doveva ricucire con l’episcopato tedesco dopo gli altolà romani
Roma. C’è un problema americano sul tavolo di Leone XIV che non ha a che fare, almeno direttamente, con Donald Trump e la sua Amministrazione. Ha detto bene George Weigel: nessuno può prendere sul serio Steve Bannon e le sue idee su Robert Francis Prevost e sulla linea che lo guiderà come Pontefice: intanto perché nessuno ancora la conosce – nonostante qualche eminenza già dispensi consigli non richiesti sui giornali, peraltro dicendo l’opposto di quanto altri confratelli vanno confidando ad altri giornali – e poi perché Bannon non risulta essere un esperto di pastorale o dottrina cattolica. Il problema serio che Leone si troverà a dover risolvere è la polarizzazione estrema della Chiesa statunitense, che si è acuita in dodici anni di pontificato bergogliano al punto da avere vescovi che neppure si parlano tra loro e che appare profondamente divisa anche rispetto ai grandi temi che dominano lo scenario globale, dalle migrazioni ai conflitti, fino – ma forse in maniera minore – alle aperture della Santa Sede nei riguardi di Pechino. Non è questione da poco il fatto che negli ultimi anni le donazioni dagli Stati Uniti siano in calo, anche perché il grosso dell’Obolo di San Pietro veniva da lì. Al principio del pontificato, un grande finanziatore conservatore minacciò di non firmare più alcun assegno per la ristrutturazione della cattedrale di St. Patrick a New York se il Papa avesse continuato “ad attaccare gli Stati Uniti”.
Francesco era consapevole di non godere di un alto tasso di simpatia, più tra l’episcopato che tra i fedeli. Così avviò una rivoluzione che prevedeva il ribaltamento delle gerarchie: via i vecchi guerrieri culturali campioni del conservatorismo muscolare e dentro nuove leve, più in linea con il suo programma di governo. La prima scelta di peso, in tal senso, fu la nomina di Blase Cupich a Chicago, in quella che per un ventennio era stata la diocesi del principe dei culture warriors, il cardinale Francis Eugene George. Una scelta di radicale cambiamento: Cupich fu suggerito a Francesco anche dal cardinale Óscar Maradiaga, che conosceva bene l’allora vescovo di Spokane. Cupich, ai tempi in cui frequentava il Collegio Nordamericano di Roma, era considerato il vero delfino del cardinale Joseph Bernardin, il grande porporato (anche lui arcivescovo di Chicago) teorico della “grande tenda” che era chiamata ad accogliere tutti e capofila della corrente liberal dell’episcopato statunitense. Ma fu una rivoluzione a metà, quella di Francesco: nonostante il lavoro del nunzio Christophe Pierre, si faticava a trovare vescovi di orientamento diametralmente opposto a quello preponderante: al più, salvo rare eccezioni, restava da pescare nel serbatoio dei moderati. Così, il Papa preso alla fine del mondo – anche per dare un messaggio alla locale Conferenza episcopale che a scrutinio segreto eleggeva sempre vertici assai conservatori – scelse di creare cardinali i principali esponenti della linea bergogliana in terra americana: Cupich, Tobin, Gregory, Farrell, McElroy. Quest’ultimo, probabilmente il più liberal fra tutti, trasferito addirittura a Washington poco dopo la rielezione di Donald Trump, nonostante qualche consigliere del Pontefice (e, pare, anche il nunzio) avesse suggerito un profilo meno caratterizzato da un verace antitrumpismo. Resisteva però, nel Collegio, la vecchia linea conservatrice: Dolan, DiNardo, Harvey, Burke. Una polarizzazione evidente solo guardando i nomi.
Il punto mediano, se non altro per la sua prudenza e per l’aver sempre evitato di entrare in questioni divisive – il tweet di risposta a Vance era condiviso anche da parecchi vescovi “trumpiani” – era proprio Prevost, che però era considerato più peruviano che yankee. Spetterà a lui, ora, cercare di smussare gli angoli un po’ troppo acuti che affollano la Chiesa statunitense. Leone XIV non è un conservatore – è molto legato al cardinale Cupich – ma è considerato pragmatico: più che intestarsi battaglie, è prevedibile che cercherà di anticiparle, creando i presupposti per compromessi e riflessioni. L’ha fatto anche in relazione al Cammino sinodale tedesco, che l’ha visto coinvolto nella delegazione curiale che doveva ricucire con l’episcopato tedesco dopo gli altolà romani. Potrà agire, come il predecessore, con le nomine: lo scorso febbraio ha compiuto 75 anni il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York. Non è stato un prevostiano della prima ora in Conclave (era, convintamente, per Péter Erdo), ma fra tutti i contendenti davvero papabili, non ha avuto dubbi nello sposare la causa del confratello americano. Francesco non ha fatto in tempo a congedarlo, ora si vedrà come e quando (e con chi) Leone XIV provvederà. Sarà un segnale.