
Ansa
il conclave
La magnificenza di uno spettacolo superbo: i cardinali in processione
Un elogio solenne e ironico alla teatralità sacra dei cardinali, custodi di un’estetica e di un mistero fuori dal tempo. L’anticlericalismo, senza ammirazione, è solo ottusa banalità
I successori degli apostoli sono i vescovi, e già non è poco come parure e mestiere, ma i cardinali hanno in più una speciale dignità, il rosso porpora del martirio e un’aura di supremo comando dello spirito e della carne. Ogni volta che li vedo in abito solenne e in cammino verso il Conclave, come avvolti nei prodigi dell’arte tra baldacchino e icone mariane, non finisco di stupire e meravigliare. Come si faccia a non ammirare i preti è sempre stato per me un mistero. Sono consacrati alla fede nell’Incarnazione, e l’ordine a cui appartengono non è integralmente di questo mondo, allude al mistero, eppure le loro sottane, talari, mozzette, le stole, gli zucchetti, gli anelli e altri ornamenti in processione indicano un che di disincarnato e di disincantato, sono l’esaltazione edificante di un estetismo fuori dell’ordinario tra musica e coreografia, un fenomeno che nessun altro spettacolo saprebbe rendere in così fulgenti colori mondani. E non mi arrischio a dire dei paramenti delle chiese orientali, maestosi come poche cose che si possano esperire al mondo, mantelli imperiali, copricapo che sanno di Bisanzio, canoni simbolici e giuridici viventi e ambulanti, una processione di colori che ha del soprannaturale. I preti sono diventati nel tempo il capro espiatorio della banalità della vita civile nel mondo che si crede illuminato dalla filosofia della ragione.
Diderot accusava: scelgono la povertà, cioè la pigrizia e la questua invece del lavoro e della realizzazione di sé; scelgono la castità, insultando il Dio in cui credono nella cosa più saggia da lui istituita per la propagazione della Creazione; scelgono l’obbedienza, che vuol dire rinuncia al bene prezioso della libertà. Questo letteralismo anticlericale mi è sempre sembrato, non solo la testimonianza di una volontà di potenza indicibile, écrasez l’Infâme, schiacciare le chiese, ma l’espressione di una mancanza di fantasia e di una intelligenza gravida di vanagloriosa stupidità. E’ poi questa la devozione atea. Dicevano che non si vede l’utilità dei monaci e dei preti di qua dal Paradiso, mentre è evidente che i consacrati al cielo sono l’unica alternativa possibile alle fumisterie infernali del Paradiso in terra, sono la percezione del bello contro il mascheramento del belletto. Non conoscono aule sorde e grigie, praticano le cappelle Sistina e Paolina. Non camminano dinoccolati come laici qualunque, scivolano sui marmi. Realizzano sogni di bene, e talvolta il male, attraverso il realismo dell’ipocrisia. Esprimono con il sacro quella bella misura di separazione che rende fraterno, ma con riserva, l’essere umano. Bucano lo schermo perché non ne dipendono, sono lo schermo. Di loro, dei miei amatissimi e scelleratissimi preti (Guicciardini) si può dire quel che Karl Kraus diceva dei poeti: incontrano la soluzione e la trasformano in enigma. Capisco l’anticlericalismo, in nome del quale sono stati combinati pasticci inauditi, fuori e dentro la Chiesa, solo se corretto dallo stupore e dall’ammirazione per i cardinali, che dei preti sono l’elegante, suprema manifestazione. Se i telecronisti della tv vaticana non sprecassero in formule omiletiche banali la loro capacità professionale, ci restituirebbero l’unica cosa che conta prima durante e dopo il Conclave: la devota magnificenza di uno spettacolo superbo.


Su tutte le piattaforme
Il mistero del Conclave: l'elezione più cool al mondo
