
il nuovo papa
Il mondo in pezzi alla prova del Conclave
L'obiettivo primario di Zen, più che il Papa, era proprio Parolin, considerato l'artefice dell'Accordo con la Cina. L'anziano cardinale cinese non è solo, non è la battaglia personale in un Collegio unitariamente schierato a difesa dell'Accordo: il cardinale Charles Maung Bo, del Myanmar, ha detto cose sovrapponibili a quelle di Zen. Fra i cardinali americani, poi, l'abbraccio di Roma a Pechino non è che desti particolari entusiasmi
Dalla questione russo-ucraina ai rapporti con l’America, fino alla Cina e al vicino oriente. Il ciclone Francesco ha lasciato un’eredità pesante agli elettori
Roma. Se tra i favoriti alla successione al Soglio c’è il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato dal 2013, si comprende come – oltre alle qualità di mediatore che gli vengono riconosciute da una buona parte del Collegio cardinalizio – la questione del mondo in fiamme (o a pezzi, per usare un’espressione cara a Papa Francesco) entri nelle conversazioni di questi giorni fra le eminenze attovagliate in qualche trattoria romana o nelle più sobrie congregazioni mattutine. E’ un po’ come nel 1939, dopotutto: non c’è Hitler pronto ad allargare il Reich nel cuore d’Europa, ma la minaccia putiniana è lì che preme a oriente, i cento giorni di Trump non hanno avuto nulla dell’aura mitica di quelli napoleonici prima del confino perpetuo a Sant’Elena, il vicino oriente è come sempre in fiamme e la questione israelo-palestinese accende gli animi anche di qualche eminenza straniera cui non è andata giù la mancata partecipazione di esponenti di punta del governo Netanyahu ai funerali di sabato. Francesco sarà stato sì un Papa evangelizzatore, un grandissimo catechista e un vescovo di Roma attento agli ultimi e agli scartati, ma è stato altresì un leader politico come pochi se ne vedono sulla scena globale. Dopotutto, lo disse lui stesso, quando a una rivista belga anni fa sottolineò che il problema dell’Europa è che non si vedono leader all’altezza. Lui, invece, a Strasburgo o ricevendo premi europei in Vaticano, mostrava di esserlo (che poi le sue prese di posizione piacessero o no è un altro discorso). Niente diplomazia né prudenza tattica: l’impulsività caratteriale lo portava a prendere iniziative che non di rado mandavano ai matti la Segreteria di stato. Putin invade l’Ucraina e lui esce da Santa Marta e va all’ambasciata russa: “Ho sentito che dovevo andare lì e ho detto che ero disposto ad andare da Putin se serviva a qualcosa. E da quel momento ho avuto un buon colloquio con l’ambasciata russa. Quando io presentavo dei prigionieri, io andavo lì e loro liberavano, hanno liberato anche da Azov. Insomma l’ambasciata si è comportata molto bene nel liberare le persone che si potevano liberare. Ma il dialogo si è fermato lì. In quel momento mi scrisse Lavrov: ‘Grazie se vuole venire, ma non è necessario’”. Gli chiedono delle cause del conflitto e lui, riportando una frase sentita chissà dove, ricorda che giustificare il Cremlino no, ma che se “la Nato abbaia ai confini della Russia…”. E poi Kyiv, cui mandava ambulanze tramite l’elemosiniere don Corrado Krajewski, che “se vedi che sei sconfitto devi avere il coraggio della bandiera bianca”. Kirill, l’uomo abbracciato all’Avana con tanto di dichiarazione congiunta che oggi farebbe gridare all’orrore i cultori del todos, todos, todos per certi passaggi su famiglia e colonizzazioni ideologiche, bollato come “chierichetto di Putin”. E i funzionari vaticani costretti a rincorrere, contestualizzare, precisare. Mai negare, anche perché non potevano: il Papa andava in tv, concedeva interviste a ruota libera. Impossibile dire: non è vero. Medesimo copione sul vicino oriente, le telefonate serali a Gaza che non venivano tollerate più di tanto dal governo israeliano – anche se, come dimostrano certi video diffusi, Francesco si informava quasi esclusivamente sulla giornata trascorsa dalla piccola comunità locale, domandando cosa avessero mangiato, cosa avessero fatto. Come farebbe un padre.
Gli scontri con l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede, le fratture non indolori con le comunità ebraiche che accusavano il Papa d’aver compromesso sessant’anni di dialogo (i “passi indietro” segnalati anche dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che però ha omaggiato Francesco con tanto di visita al feretro). I rapporti con gli Stati Uniti, freddi, freddissimi: il suo maestro, padre Juan Carlos Scannone, davanti alle accuse piovute al suo ex studente fin dagli albori del pontificato di essere anti yankee, rispose che “non si tratta di avere riserve sugli Stati Uniti in quanto tali, ma sugli Stati Uniti in quanto potenza egemonica. Il Papa non appoggia l’egemonia, da qualunque parte essa venga. Preferisce un mondo multipolare”. I grandi finanziatori e filantropi americani se ne accorsero subito, arrivando perfino a minacciare di negare i fondi per la ristrutturazione della cattedrale di San Patrizio, a New York. E in dodici anni, nonostante il tentato – ma non riuscito, almeno non completamente – ribaltamento della gerarchia episcopale locale, poco è cambiato: il cattolicesimo statunitense, minoranza fra minoranze, fiorisce nelle comunità più conservatrici: lo dicono i dati di partecipazione alle messe e, soprattutto, il numero di vocazioni: i nuovi preti, rilevavano recenti indagini sociologiche, sono quasi tutti d’impronta tradizionalista. Alle ultime elezioni presidenziali, poi, più della metà dei cattolici ha votato per Donald Trump, ritenendolo il “male minore”. Dopotutto, il Papa in aereo aveva fatto capire di non apprezzare particolarmente né colui che sarebbe stato rieletto né la sua sfidante democratica, Kamala Harris: sono atteggiamenti “contro la vita sia quello che butta via i migranti sia quello che uccide i bambini”.
Ma la grande passione di Francesco era l’Asia, dove avrebbe voluto fare il missionario sulle orme dei grandi gesuiti del passato, da Francesco Saverio a Matteo Ricci. A lui sarebbe piaciuto andare in Giappone, da Papa ha invece fatto il possibile per aprire la Cina alla Chiesa. Nel 2018 ha sottoscritto l’intesa segreta con Xi Jinping relativa alla nomina dei vescovi, rinnovata più volte sotto lo sguardo favorevole del cardinale Parolin, che essendo creatura di Villa Nazareth e discepolo della scuola plasmata dal cardinale Achille Silvestrini (grande sostenitore della Ostpolitik casaroliana e della diplomazia pragmatica opposta a quella “della verità” perseguita da Benedetto XVI), ha lavorato con cura all’intesa. Non restandone mai pienamente soddisfatto, stando alle sue misurate parole concesse ai giornalisti che gli chiedevano lumi sui contorni del testo negoziato: “Speriamo si possa migliorare”, disse una volta, mostrando una cautela diplomatica sconosciuta al Papa regnante, entusiasta invece della stretta di mano con Pechino, tanto da sperare di poterci andare prima o poi. Francesco non cambiò mai opinione, neppure quando i cinesi violavano i termini dell’accordo e nominavano i vescovi dando notizia a Roma a cose fatte, costringendo la Santa Sede a ratificare decisioni del plenum del Partito comunista, fra imbarazzi e silenzi. Non cambiò idea neppure quando per una mezza frase sugli uiguri, il popolo perseguitato dal regime, un maggiorente di Xi commentò sprezzante che “il Papa non sa quello che dice”. Non scelse la prudenza diplomatica neppure quando Pechino arrivò a minacciare Hong Kong, circondando la città con i tank e arrestando centinaia di persone fra cui il cardinale novantenne Joseph Zen, che una volta giunto a Roma fu lasciato fuori da Santa Marta per non dare appigli a Xi.
E proprio Zen, ora novantaquattrenne, è arrivato a Roma. Dice che farà lì sentire la sua voce contro l’appeasement, contro l’accordo che lui ha sempre rifiutato, definendolo una resa, una capitolazione a chi vuole la scomparsa della Chiesa. “Sia a Hong Kong sia a Roma, si cerca di rabbonire Pechino, mostrandosi così arrendevoli. In questi ultimi anni non una parola di rimprovero è giunta da Roma riguardo a tutte le malvagità commesse dalla Cina. Tutto il mondo vede come i giovani vengono picchiati, tutti. Nel silenzio generale”, disse in una lunga intervista al Foglio nel 2020. E l’obiettivo primario di Zen, più che il Papa, era proprio Parolin, considerato l’artefice del piano. L’anziano cardinale cinese non è solo, non è la battaglia personale in un Collegio unitariamente schierato a difesa dell’Accordo: il cardinale Charles Maung Bo, del Myanmar, ha detto cose sovrapponibili a quelle di Zen. Fra i cardinali americani, poi, l’abbraccio di Roma a Pechino non è che desti particolari entusiasmi.
L’eredità “geopolitica” di Francesco è quindi complessa e particolare. Anche qui, si sostiene, servirà qualcuno che metta ordine, che plachi gli animi e riporti la Chiesa alla diplomazia silenziosa e sottotraccia del passato, caratteristica che fece grande nei secoli la scuola vaticana. Da settimane gli osservatori di questioni ecclesiali hanno posato gli occhi sul cardinale Claudio Gugerotti, quasi settantenne prefetto del dicastero per le Chiese orientali. Poliglotta, conosce lingue moderne e antiche e perfino lingue regionali, personalità gioviale e più “comunicativa” (per usare un’espressione che il cardinale Reinhard Marx ha ripetuto più volte in questi giorni) del confratello Parolin, qualcuno lo avrebbe messo nella lista dei “pretendenti” al Soglio. Anche perché, in questo mondo in pezzi, Gugerotti può vantare una solida esperienza diplomatica: nunzio in Armenia, in Bielorussia, in Ucraina e quindi nel Regno Unito. Ma anche lui, come Parolin, è espressione della scuola diplomatica silvestriniana, che a Kyiv non ha lasciato ricordi indimenticabili – non di rado si paragona la “freddezza” dell’attuale prefetto delle Chiese orientali al “calore” dell’attuale nunzio, mons. Visvaldas Kulbokas. Lui, come Parolin, è considerato un professionista esemplare, ma uomo di scrivania, con nessuna esperienza pastorale diocesana. Dalle cosiddette periferie della Chiesa più di un porporato ha rimarcato la necessità di una parentesi in mezzo alla gente, alla guida di una Chiesa particolare. Una parte dei cardinali conservatori – soprattutto quelli che considerano Parolin troppo legato alla governance uscente – aveva anche preso in considerazione il suo profilo come “pacificatore”, prima che qualcuno facesse notare che sarebbe strano fare Papa un cardinale che non è mai stato in seminario.
Si vedrà, le logiche del Conclave sono particolari: candidature che sembravano forti possono tramontare una volta pronunciato l’extra omnes. Dodici anni fa le redazioni erano invase da rapporti su cardinali sicuri di una quarantina di voti in partenza, poi allo scrutinio si constatò che erano la metà. E’ la storia delle elezioni papali, quella di sempre. Che si ripete, almeno nel chiacchiericcio esterno, anche in questo Conclave, per mille motivi nuovo.