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Requiem per un tiranno

Così la Chiesa ha tagliato il filo sottile che la teneva ancora legata ad Assad

L'indebolimento di Putin, lo sfaldamento della Siria, l'inettitudine del rais: il copione è cambiato parecchio in un decennio

Matteo Matzuzzi

Nel 2013 il Papa si oppose ai raid sulla Siria, nonostante l’uso di armi chimiche da parte del regime. Stavolta, la posizione è di cautela se non di aperto sostegno alla caduta di Assad: "Il regime si è preso tutto, ha rubato tutto. Mai avremmo pensato che il regime di Assad cambiasse: è stata una sorpresa e, ancora oggi, ci sembra un sogno”, ha detto il vescovo di Homs

Alla fine d’agosto del 2013, l’attacco occidentale su Damasco era considerato imminente. I piani militari definiti, lo scopo della missione pure: Bashar el Assad aveva usato armi chimiche a Goutha, sobborgo della capitale, oltrepassando una delle tante linee rosse che Barack Obama e alleati avevano posto negli anni del conflitto civile. Forse la più difficile da ignorare, quella che più faceva presa sulle coscienze delle opinioni pubbliche. Il Papa, però, intervenne, dedicando alla questione un intero Angelus, quello del 1° settembre: “Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorni scorsi!”. Ma, aggiunse Francesco, “non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!”. Da qui le iniziative pratiche, fra digiuno e veglia di preghiera, chiamando a raccolta anche “i fratelli cristiani non cattolici, gli appartenenti alle altre religioni e gli uomini di buona volontà”. 

 

Dal Vaticano, con in testa l’allora segretario del Pontificio consiglio Giustizia e pace, mons. Mario Toso, precisarono: “La via di soluzione dei problemi della Siria non può essere quella dell’intervento armato” perché “la situazione di violenza non ne verrebbe diminuita. C’è, anzi, il rischio che deflagri e si estenda ad altri paesi. Il conflitto in Siria contiene tutti gli ingredienti per esplodere in una guerra di dimensioni mondiali e, in ogni caso, nessuno uscirebbe indenne da un conflitto o da un’esperienza di violenza”. Se Washington, Londra e Parigi pensavano ai raid aerei sulla capitale siriana, la soluzione doveva essere un’altra, sostenevano da Roma: “L’alternativa non può essere che quella della ragionevolezza, delle iniziative basate sul dialogo e sul negoziato”. L’operazione dissuasiva ebbe successo e Bashar el Assad è rimasto altri undici anni sul laico trono di Damasco. Regnando su un paese diviso in cantoni, impedito di fatto a lasciare il paese, burattino nelle mani dei russi che gli avevano garantito sopravvivenza. E perdendo, mese dopo mese, l’appoggio quasi incondizionato delle Chiese (cattolica, per lo più orientale, e ortodossa) di cui fino a quel momento aveva goduto. Francesco, nello spiegare l’iniziativa “pacifista”, disse che aveva raccolto il grido delle Chiese locali, che già allo sbocciare delle Primavere arabe – siriana compresa – si erano opposte con veemenza alle rivolte: gli Assad, padre e figlio, dopo tutto avevano garantito protezione e una certa libertà alle confessioni cristiane. Anche finanziaria e politica, con il riconoscimento di un ruolo non di secondo piano nel panorama sociale locale. Il timore era tutto nella considerazione che, caduto il tiranno, nell’ordalia vendicativa dei nuovi capi finissero sull’ara sacrificale anche i cristiani. Questo nonostante al Sinodo del 2010, dedicato proprio al medio oriente, la richiesta fatta fosse stata quella della cittadinanza paritaria fra cristiani e altri gruppi etnici e religiosi: ben di più, quindi, della semplice “protezione”. A ogni modo, dopo il fallimento della spedizione punitiva occidentale della tarda estate del 2013, le gerarchie cristiane locali rivendicarono sì d’aver scongiurato le bombe “americane” su Damasco e ringraziando Vladimir Putin per l’interessamento solidale – anche a lui s’era rivolto il Papa, con benedizioni e lettera spedita a San Pietroburgo dove si stava riunendo il G20 – ma ben presto la realtà di una pace posticcia si rivelò in tutta la sua evidenza. Nel 2019, Francesco scrisse ad Assad, chiedendogli “di fare tutto il possibile per fermare questa catastrofe umanitaria, per la salvaguardia della popolazione inerme, in particolare dei più deboli, nel rispetto del diritto umanitario internazionale”. “Nella sua lettera – disse il cardinale Parolin, segretario di stato, il Santo Padre usa per ben tre volte la parola ‘riconciliazione’: questo è il suo obiettivo, per il bene di quel Paese e della sua popolazione inerme. Il Papa incoraggia il presidente Bashar al Assad a compiere gesti significativi in questo quanto mai urgente processo di riconciliazione”. Era il segno che le assicurazioni del clero locale non bastavano più, che i rapporti delle agenzie umanitarie operative sul terreno arrivavano in Vaticano con sempre maggiore frequenza e completezza di dettagli, forniti anche dai canali della Chiesa, dalla nunziatura alle diocesi locali.

 

Pesava, sulla valutazione della Santa Sede, il precedente iracheno: Giovanni Paolo II, nel 2003, si era opposto in prima persona contro l’intervento armato a Baghdad, spedendo propri inviati a Washington e da Saddam Hussein, urlando il mai più la guerra dalla finestra del Palazzo apostolico. Vedeva, Roma, la prospettiva della disgregazione del vicino e medio oriente e la diaspora della comunità cristiana. Che poi, s’è davvero ridotta a presenza poco più che simbolica. Il rais, dunque, come estrema garanzia di sopravvivenza davanti all’avanzata dello Stato islamico e delle sue avanguardie tagliagole. Gli stessi vescovi orientali, e soprattutto quelli ortodossi, hanno però colto sul terreno l’indebolimento progressivo del grande protettore russo, impantanato nelle trincee del Donbass e distratto mentre si concretizzava lo sfaldamento del regime siriano. Anche per questo, i toni filo Assad di un tempo hanno lasciato spazio al silenzio o alla massima cautela. Domenica scorsa, il patriarca siro-cattolico Ignace Youssif III Younan, spirito battagliero e assai poco affine al linguaggio diplomaticamente corretto, ha constatato “quest’ondata di rivoluzione contro il governo e il regime che continuava da molti anni”, trasformatasi in una “guerra terrificante, il cui impatto sulla sicurezza e sull’economia è stato terribile su tutti”. Per capire il cambio di registro, è sufficiente sapere che lo stesso patriarca diceva nel 2016 a questo giornale che “Aleppo era la seconda città della Siria, ricca e fiorente di commerci. Oggi è irriconoscibile, dopo tre anni e tre mesi di assedio. A Mosul c’erano una trentina tra chiese e monasteri, che oggi sono abbandonate o trasformate in moschee. Homs sembra Stalingrado durante la Seconda guerra mondiale. I bombardamenti aerei non sono sufficienti, perché questi terroristi sanno come nascondersi tra i civili. E’ necessario coordinare i raid con gli eserciti nazionali, come stanno facendo gli americani in Iraq e i russi in Siria”. Oggi, Younan assicura vicinanza ai vescovi di Aleppo, Homs, Damasco e Qamishli “nella preghiera e nella richiesta di pace, di cui tutti abbiamo bisogno”. Il Patriarcato siro-ortodosso, in una Nota diffusa dall’agenzia Fides, invita tutti “a esercitare il proprio ruolo nazionale nel preservare la proprietà pubblica e privata, evitando di utilizzare armi e praticare violenza contro chiunque”. Da qui, la richiesta di “uguaglianza fra tutti i gruppi sociali e per tutti i cittadini siriani, indipendentemente dalle loro appartenenze etniche, religiose e politiche, sulla base di una cittadinanza che deve garantire la dignità di ogni cittadino”.

 

Il vescovo di Homs, Jacques Mourad, su Avvenire mette le cose in chiaro: “Il regime si è preso tutto, ha rubato tutto. Mai avremmo pensato che il regime di Assad cambiasse: è stata una sorpresa e, ancora oggi, ci sembra un sogno”. Sorpresa, dunque. Come quella espressa ieri all’Università Cattolica di Milano dal segretario di stato, Parolin, a margine di un incontro con il mondo islamico: “A me fa impressione che un regime che sembrava così forte, così solido, nel giro di poco tempo sia stato, completamente spazzato via”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.