Cardinali ghibellini. Così la Chiesa diventa un Parlamento

Matteo Matzuzzi

I porporati giurano di essere fedeli al Papa e alla Chiesa fino al martirio, poi fanno la corsa a smarcarsi. La storia è piena di eminenze che giocavano una partita tutta loro all’ombra della talare papale. Francesco ha personalizzato il Collegio: fuori i nemici. Così i non allineati trovano sfogo sui media

Il Papa sarà anche un sovrano assoluto, il vicario di Cristo in terra, ma insomma… in fin dei conti è un uomo come tutti gli altri, almeno finché non lo faranno beato o santo. Già il cardinale Joseph Ratzinger, quando ancora non immaginava che a vestire di bianco sarebbe stato lui, avvertì che in Sistina votano signori per lo più attempati che prima di deporre la scheda nella coppa posta sotto il Giudizio michelangiolesco, fanno bene i loro calcoli. Più di recente, un cardinale confessava che nell’ultimo Conclave lui in Sistina non aveva visto volare colombe, come a dire che lo Spirito santo si sarà pure manifestato ma non con lingue di fuoco calate sui capi canuti degli eminentissimi. Giurano, quando vengono ammantati di porpora e onorati con anello e berretta, di difendere il Papa e la Chiesa usque ad sanguinis effusionem, fino alla fine e – se necessario – fino al martirio. Poi, appena scattate le foto di rito, rilasciato le interviste consuete, non di rado in conciliaboli che magari si vorrebbero riservati manifestano insofferenza e dissenso verso le parole e le opere di colui che cardinali li ha creati.

 

Mario Monicelli ha rappresentato tutto alla perfezione nel “Marchese del grillo”, allorché i francesi marciano su Roma e i nobili papalini vanno a giurare fedeltà fino all’estremo sacrifizio davanti a un Pio VII disincantato e quasi imbarazzato mentre vede sfilare davanti a sé la teoria dei vecchi, “pochi, inermi e inadeguati” aristocratici. Fino a quando arriva il turno del marchese Onofrio (Alberto Sordi), cui il Pontefice (Paolo Stoppa) domanda: “Anche tu sei pronto a difendere il Pontefice fino all’estremo sacrificio?”. “Santità, se necessario…”. 

  

Gli scandali del passato, quando fu chiesto al neoeletto Benedetto XV di far vedere per chi aveva votato. Si temeva fosse diventato Papa grazie al proprio voto

  
La storia, quella vera, è piena di eminenze che giocavano una partita tutta loro all’ombra della bianca talare papale. E anche a Papa morto, per evitare che il Conclave cambi orientamento e quindi in qualche caso spezzi carriere consolidate, non si risparmiano i colpi bassi. I diari del cardinale Friedrich Gustav Piffl, ad esempio, narrano l’umiliazione cui il potente cardinale Gaetano De Lai sottopose l’appena eletto Benedetto XV, fatto vicario di Cristo per un voto soltanto: De Lai chiese a gran voce che fosse aperta la scheda del cardinale Della Chiesa – all’epoca i biglietti per le votazioni erano segnati – credendo che quel voto determinante fosse proprio quello dell’eletto. Non fu così e il tentativo di impedire quell’esito sfumò. 

     

Giovanni Paolo II creò cardinale anche chi (e non erano pochi) avversava pubblicamente le linee portanti del suo pontificato

  
I cardinali sono – o dovrebbero essere – i primi consiglieri del Pontefice, da lui scelti e creati. Fedeli sì, ma con logiche e naturali divergenze d’opinioni. Contano qui molto i criteri che portano alla decisione di iscrivere nel Collegio l’uno piuttosto che l’altro. Negli ultimi decenni, seguendo il principio evangelico dell’affinché siano una cosa sola, i Papi hanno messo dentro di tutto, conservatori e progressisti, fedelissimi e antagonisti più o meno dichiarati. Giovanni Paolo II, per fare un nome, impose la berretta a Walter Kasper e Karl Lehmann, che anni prima avevano guidato la rispettosa ma ferma protesta circa il no di Wojtyla alla comunione per i divorziati risposati. E non si fece scrupoli nel lasciare a Milano per un ventennio Carlo Maria Martini, di certo non in sintonia con lui circa l’idea di Chiesa e di mondo. Anche Benedetto XVI ha seguito lo stesso copione, è sufficiente scorrere l’elenco delle eminenze da lui create nei pochi concistori del suo pontificato. 

 
Con Francesco le cose sono cambiate, fin dal principio: niente più porpore assegnate in automatico a seconda del prestigio della sede, bensì sulla fiducia. E con il chiaro intento di non portare in Sistina profili antitetici al programma del pontificato in corso. Non è il primo a farlo, Pio X lasciò fuori dal Conclave l’arcivescovo di Firenze sospettato di derive moderniste. Eppure, tra processi, proteste e tiri mancini, mai come oggi il caos ribelle sembra aver acquisito una posizione di tutto rispetto. L’ultimo episodio, quello di certo più appetibile per i talk-show serali e pomeridiani, è la telefonata registrata dal cardinale Giovanni Angelo Becciu al Papa convalescente, in cui chiedeva una prova verbale che lo sollevasse da ogni imputazione giudiziaria. Con vene di puro trash quali sono le chat con i parenti in cui il Papa, “Su Mannu” (il Grande o il Principale), viene interessato da commenti non elogiativi e lo sconsolato cardinale scrive a un certo punto “mi vuole morto”, e colui che lo vorrebbe morto è proprio Francesco. Ma è appunto chiacchiericcio, buono per i giornali e per i commenti ridanciani di monsignori in trattoria. A creare più problemi sono senz’altro i cardinali che recapitano messaggi a Roma chiarendo che il Papa può fare e dire quel che vuole, ma che nessuno – tantomeno lui – può imporre leggi altrove. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi, quando in Vaticano sono calati dalla Germania i vescovi della locale Conferenza episcopale, riuniti prima col Pontefice e poi con i capi dicastero di curia. Hanno parlato e ascoltato, salvo poi tornare in patria e far sapere al mondo che loro vanno avanti con l’agenda predeterminata, che è tutto meno che conciliatoria nei riguardi dei desiderata romani. 

  

   
Ma basta tornare indietro con la memoria agli anni scorsi, ai primi del pontificato, quando il doppio Sinodo sulla famiglia scatenò proteste che in altri tempi si sarebbero definite vibranti. Ci fu pure il caso dei quattro cardinali che domandarono al Papa in persona, attraverso l’antica formula del dubium (cioè un interrogativo la cui risposta può essere solo l’evangelico Sì o No) se fosse possibile riaccostare i divorziati risposati alla comunione. Francesco non rispose e da quel momento i porporati rimasti con i loro dubbi non mancarono di portare la questione all’esterno, sulla stampa, in pubblico. Ci fu chi parlò di tradimento, altri chiesero che i quattro fossero privati dei diritti connessi al cardinalato, e tutto soltanto per aver posto una domanda. Le richieste avanzate con più foga e con la forca in mano si potevano riassumere nel fatto che “i quattro erano andati contro il Papa”. A chiudere la vicenda ci pensò uno dei firmatari dei dubia, il cardinale Carlo Caffarra, che a favore di telecamere disse “sono nato papista e voglio morire papista”, facendo fare una figura barbina a quanti magari la porpora volevano fargliela togliere agognandola per sé. E poi le interviste critiche per questa o quella posizione in materia pastorale, per la tal enciclica, per l’atteggiamento rispetto ai problemi grandi e piccoli della Chiesa. Un profluvio di dichiarazioni, posizionamenti subito seguiti da altri che invece fanno sapere urbi et orbi che loro stanno con il Papa, quasi fosse una battaglia – anche mediatica – per definire schieramenti in vista dell’apocalisse attorno a San Pietro. E’ un po’ questo che è cambiato rispetto al passato: le voci critiche sono subito timbrate alla stregua di antipapismo militante e dunque degne di finire se possibile nell’archivio delle cose da dimenticare. Indegne non solo di risalto, ma anche d’essere solamente prese in considerazione. La condanna è immediata, accompagnata per lo più dallo scherno generale. Eppure, in passato le opinioni diverse godevano non solo d’attenzione, ma a esse erano concessi pure teatri e amboni di tutto prestigio. Si è detto di Martini, che aveva anche una seguita rubrica sul principale quotidiano italiano, e che mostrò perfino lecite, e ci mancherebbe altro, perplessità sulla canonizzazione di Giovanni Paolo II, il “santo subito”. Ci sono i cardinali che si riunivano a San Gallo, il circolo che con una battuta  Godfried Danneels, arcivescovo emerito di Bruxelles, battezzò “mafia club”, intenti a programmare un futuro per la Chiesa assai diverso da quello delineato dal pontificato giovanpaolino. Per non dire degli assalti a Benedetto XVI, con vescovi che ad esempio prendevano il motu proprio Summorum pontificum caro alle realtà tradizionaliste e lo ostacolavano con ogni mezzo a disposizione. A volte lo fanno forse inconsapevolmente, come quando il cardinale Oscar Maradiaga, nel 2013, rendeva partecipe il mondo della sua allegria per il fresco vento primaverile entrato in Vaticano con l’elezione di Francesco, parlando di riforme imminenti, cambiamenti assicurati e la fine d’ogni scandalo. Non è dato sapere quanto sarà rimasto felice, del paragone, il vecchio Pontefice dimissionario. 

 
Viene da chiedersi allora cosa sia successo, perché la normalità sia divenuta quasi un delitto di lesa maestà, per quale ragione cioè la parresia, manifestando idee anche diverse su materie che non derivano da pronunciamenti ex cathedra, sia non più tollerata né tollerabile. Forse, la radice di ciò va cercata nel clima da resa dei conti che segnò il pre Conclave del 2013, quando lo choc per la rinuncia del Papa sfinito dal peso delle incombenze, degli scandali e dei furti nel suo sécretaire, aveva portato a parlare di corvi che svolazzavano indisturbati sulla Cupola petrina. Le congregazioni generali furono anche una sorta di tribunale improvvisato che vide il segretario di stato Tarcisio Bertone sul banco degli imputati, accusato di essere la calamita di tutti i mali che attanagliavano la Chiesa, il responsabile implicito del drammatico atto finale di Benedetto XVI, la sua rinuncia. Non di rado si sentivano proclami cardinalizi sulla necessità di cambiare, svoltare, riformare. Qualcuno, un po’ spavaldamente o ricolmo d’ottimismo, sentiva già spirare nei corridoi aria buona di novità, fresca e pura. C’è chi invocava la chiusura dello Ior e chi la dava per certa, chi puntava a “deromanizzare” il papato con l’intento ultimo di rovesciare la piramide gerarchica che governa la Chiesa. 

 

  
E’ da qui che nascono azioni e reazioni, con un fossato tra le due sponde che si è sempre più allargato con l’avvento, le parole e le opere di Francesco, il Papa preso quasi alla fine del mondo. Mai, e così esplicitamente, almeno in epoca recente, s’era assistito alla competizione tra cosiddetti “bergogliani” e “antibergogliani”, tra chi sostiene il programma per una Chiesa in uscita aperta alle novità e chi invece vede in quell’agenda il disastro. Il tutto amplificato dai social media d’ogni tipo, che anni fa non esistevano e riducevano di molto echi e casse di risonanza. C’è da domandarsi, se in questa corsa a smarcarsi dal pontificato corrente o – viceversa – a farsi araldi dello stesso, a uscirne malconcia non sia proprio l’autorità papale (del Papa in quanto tale, non del Pontefice attuale), spinta nell’arena alla stregua di un trofeo conteso. La Chiesa, si dice sempre, non è un Parlamento. Non ci sono maggioranze né opposizioni. I contrasti ci sono sempre stati, le cordate nemiche pure, e per fare qualche utile esempio non sarebbe neppure necessario risalire ai torbidi secoli rinascimentali. La “parlamentarizzazione” così manifesta, però, contribuisce a desacralizzare ancora di più il tutto: il Popolo di Dio, non v’è dubbio, avrebbe fatto a meno di ascoltare la voce sofferente del Papa registrata suo malgrado da un cardinale imputato in un processo. Storie, queste, ben più dolorose delle dispute sui sacramenti che pure lacerano il cuore di una Chiesa che proprio unita non è.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.