Alessandro Bulgini, “Opera Viva – Luci d’artista”, 2015, Barriera di Milano, Torino (performance)

Barriera Blues

Corrado Beldì

Quella contro i centri commerciali è una lotta impari. Il mercato di Piazza Foroni, a Torino, scomparirà in una generazione, perdendo tutti i suoi talenti

Sono salito a Superga prima dell’alba, non tanto per la mia solita nostalgia calcistica ma per vedere Torino di notte, senza i lampioni di Piazza Vittorio e le luci del grattacielo di Renzo Piano. Il simbolo del potere bancario è in lontananza, c’è un faro che lampeggia proprio in cima ma qui sotto, nei quartieri alla periferia nord della città, sembra che nessuno se ne accorga. “Si riposano, domani devono essere a Mirafiori”. Una battuta dell’Avvocato, mentre guardava la città dalla collina. Apprezzava parecchio il senso del dovere della classe operaia o forse questo buio infinito, che sembra voler mettere il cappotto alla Mole Antonelliana. Si direbbe che dormano tutti ma non è così, dalle parti di corso Giulio Cesare c’è una squadra di facchini che si aggirano con delle piccole macchine elettriche. Sono quelli che montano il mercato, dal lunedì al sabato e lo smontano alla fine. Mi diranno che nessuno guadagna più di loro, fanno il lavoro più facile, non devono trovarsi il cliente, sono ben organizzati e li pagano in giornata. Quando finiscono di assemblare, mai dopo le nove del mattino, arriva uno sciame di transpallet e di vecchi carretti di legno e non posso distrarmi un attimo, perché le bancarelle di piazza Foroni si riempiono alla velocità del vento.

 

Gli ambulanti
sono quasi tutti pugliesi, a dispetto di chi parla
di Barriera di Milano come di un mercato multietnico 

Le case sono sgarrupate al punto giusto e quasi ogni balcone ha i panni stesi. Sono segni chiarissimi, questo è il teatro del mondo. La piazza è un’invenzione, sono due strade che formano uno slargo a forma di clessidra, metafora dello scorrere del tempo. In una città che da sempre è ortogonale, un incrocio così poteva accadere unicamente in campagna, infatti il quartiere esiste solo dall’Ottocento, quando hanno fatto la cinta daziaria di Torino e le case han preso il posto dei campi. Il mercato è nato allora. Gli ambulanti sono quasi tutti pugliesi, a dispetto di chi parla di Barriera di Milano come d’un mercato multietnico. Lo è di certo per la manovalanza ma non per le bancarelle, soprattutto quelle alimentari. Frutta, verdura, carne, formaggi e spezie. Qui si parla italiano, soprattutto del meridione. Lo si vede dall’altezza media. Molti vengono dalla provincia di Foggia e su un muro, con un certo orgoglio, hanno fissato una targa di marmo con scritto Piazzetta Cerignola e un’edicola con la Madonna di Ripalta e una volta all’anno fanno la processione, l’ultima volta c’era il carro coi buoi e la banda dietro e le tuniche colorate e bicchieri di vino per tutti.

 

Mi guardo intorno e vedo molti cappelli e dunque tanti vecchi, è un tratto comune dei mercati italiani ma qui i clienti arrivano da tutta Torino. Non solo dalle periferie. Incontro una signora che viene dal centro, con il tram numero 4 ci mette un attimo e poi a Porta Palazzo ha paura, ci sono stati dei borseggi e ormai il cus cus è ovunque, i datteri saranno pure dolci ma pomodori come questi non si trovano. In Barriera è diverso, le cose non sono cambiate. Cime di rapa, olive, mozzarelle. A fare un mercato sono gli alimentari, me ne sono accorto in posti lontani, guardando le mele a piramide a Mosca o le carote affettate a Dushambe o le spezie ad Addis Abeba o il pesce che si muove ancora sulla spiaggia di Dakar. Il posto d’onore qui ce l’hanno i taralli, che sono d’ogni tipo, alla cipolla e al seme di finocchio, all’olio d’oliva e al peperoncino e di grano arso e poi il pane di Altamura che dopo una settimana è ancora fragrante.

 

Nel Dopoguerra
era un approdo
per chi saliva dal sud. Prima ancora, per quelli che venivano da Cuneo, i piemontesi più poveri

Enzo sta qui da quando è nato, ha preso il banco dal padre e sa che i figli faranno un altro mestiere. E’ la storia di tutti. Troppe imposte, troppe gabelle e alla fine devi pagare la tassa rifiuti e il commercialista e la multa per il furgone in divieto, non importa se sei stato cinque minuti, la multa arriva e la devi pagare, mentre gli stranieri ti fanno concorrenza, ufficialmente non esistono e quando l’Inps se ne accorge magari sono passati tre anni, quelli chiudono e riaprono con un altro nome. “W PCI. Lavoro agli Italiani”. Una scritta che dice ogni cosa. Tra zucchini chiari, melanzane viola e una sciarpa del grande Toro. C’è tanta vita da scoprire. Con le bancarelle a fianco c’è un dibattito continuo. Mi parlano dei clienti, della fatica, del futuro, della qualità delle cose. I prodotti migliori si prendono all’alba, al Centro Alimentare, e se i peperoni costano tre euro è perché sono italiani, sembrano vivi e sono di un giallo carnoso che sarebbe piaciuto a Edward Weston, per una di quelle sue foto che erano più erotiche di un nudo. Forse li comprava anche Carlo Mollino, se ne intendeva assai di corpi di donna e da queste parti sfrecciava nella sua fuoriserie per seguire i lavori del Dancing Lutrario, su via Stradella, che negli anni Cinquanta è stato un ponte per l’America.

 

Barriera di Milano è la frontiera di Torino, tra il casello dell’autostrada e il centro. Ci passo sempre quando arrivo in città, ci passano tutti ma si fermano in pochi. Eppure dovrebbero fare una sosta, perché al banco di Stefano trovo formaggi che al supermercato non ci sono, il Gavoi stagionato, il Ragusano raccolto nelle mastredde e il gorgonzola con mascarpone e noci fatto in casa, a strati come si faceva nelle latterie.

 

Negli anni del Dopoguerra Barriera era un approdo per chi saliva dal sud. Prima ancora, per quelli che venivano da Cuneo, i piemontesi più poveri, facevano gli operai alla Fiat Grandi Motori o alla Fratelli Piacenza o alla Ceat di Virginio Bruni Tedeschi. A due generazioni di distanza, per i figli di quelle fabbriche, il mondo è cambiato. Non parlo di Carla Bruni. Parlo di fabbriche chiuse per sempre. Per fortuna i padri sapevano sudare e la casa sono riusciti a comprarla e allora per gli ambulanti, senza un affitto da pagare e con la moglie dietro al banco, i conti, seppure a fatica, possono pure tornare.

 

Chissà se tornavano alla mamma di Gipo Farassino, che stava in un cortile in via Cuneo 6, c’erano due alloggi per piano, con il bagno in comune. Aveva scritto una canzone che parla di lei. “Io guardo i balconi con quelle ringhiere cariche di biancheria / e il cielo lassù pare un tendoned’un grigio così sporco / che sembra gridare: lavatemi!”. Era prima del night di piazza Massaua, del successo con Avere un amico e degli anni con la Lega Nord Piemont, che qui affondava radici vere e aveva in Farassino un leader naturale. Il vate di Barriera era uno zingaro che alla fine tornava sempre a casa. “Sono un patriota torinese”.

 

Le canzoni di Gipo sono state dimenticate e adesso a parlare il dialetto sono gli extracomunitari come Jacob, un ragazzo della Guinea, che dice fuma c’anduma e ha fatto un disco rap e organizza gruppi multicolore, con le solite bandiere che li avvolgono, si trovano al mercato il sabato mattina, stanno in cerchio, battono le mani e cantano filastrocche sull’integrazione. Vorrebbero che in piazza non ci fosse lo spaccio e che i bambini potessero stare sempre in strada.

 

Negli ipermercati
non ci sono le patate delle valli di Lanzo,
i pomodori Marinda,
le cipolle di Tortona,
le melanzane di Sicilia

Una volta c'era l'oratorio salesiano Michele Rua, scusate per la verità c'è ancora e il campo ora è in erba sintetica, non ci sono più le pietre di un tempo ma i figli non ce li mandano e rimpiangono il passato. Il prete era severo ma se andavi alla messa del mattino ti dava un biglietto per il film di seconda visione, a cinquanta lire anziché duecento. Dice Michele che di cinema ce n’erano tredici, compreso quello porno e in quelle sale ci sono cresciuti e hanno fatto le loro esperienze, mentre adesso i film vanno a vederseli su internet o peggio nei multisala, dove finiscono per fare la spesa. Sono i centri commerciali che qui non nomina nessuno, perché se parli del nemico poi ti appare ancora più cattivo e affamato. Esselunga, Auchan, Pam, Conad, Ipercoop, Carrefour, a Torino non manca nessuno, lo avevano detto al sindaco quando era arrivato in Barriera per la campagna elettorale ma lui niente, camminava troppo alto e non ascoltava nemmeno.

 

Non è certo una lotta alla pari, c’è il parcheggio coperto e mettono pure i gonfiabili ma in quei capannoni non ci sono le patate delle valli di Lanzo, i pomodori Marinda, le cipolle di Tortona, le melanzane viola di Sicilia o l’aglio rosso di Voghera. Quei ragazzi bisognerebbe farli uscire di casa e dirgli di lasciare la porta aperta, altro che pomeriggi sui social media, la vita è sulla strada ma devi avere la voglia di scoprirla. Ai tempi di Enzo si stava tutto il giorno in piazza, tanto i genitori erano in fabbrica e a casa non c’era niente da fare e si tornava dopo il tramonto con le ginocchia sbucciate e il fango dappertutto ma ci si divertiva e c’era senso di appartenenza. Mi racconta le scazzottate con quelli di Vallette o Mirafiori. “Si faceva a botte ma c’era rispetto e alla fine si diventava amici. Ne abbiamo imparate di cose. Noi eravamo quelli di Barriera”.

 

I ragazzi hanno dimenticato il nascondino, la corsa nei sacchi, la mosca cieca, il biliardino e anche a calcio non si gioca come prima, il campo devi prenotarlo e per strada fai troppo rumore e allora forse i campioni del futuro non nasceranno in Barriera, eppure ci sono sessantamila abitanti e insomma, questo quartiere è un po’ come una piccola città, potrebbe venir fuori un Roberto Bettega, per dirne uno che ha iniziato da queste parti. Se desertifichi le piazze, finisci per uccidere il commercio, il saper vivere insieme e pure la storia del pallone. “Aspetto tre clienti, poi chiudiamo. Arrivano alle tre. Fanno la spesa per tutta la settimana”.

 

Guardo la catalogna cimata, le cardoncelle, i broccoletti, il cimone e so che arriva tutto dal Tavoliere e allora qualche affare si fa ancora. Per quanto tempo? Giovanna e Antonio sono qui da quarantotto anni, hanno una macelleria equina ma ormai il cavallo lo comprano solo i vecchi e una volta a settimana, i musulmani la mangiano pure, ma i vegetariani proprio no e nemmeno chi passa il tempo a firmare petizioni animaliste. Entra una signora anziana. “La vede questa? Appena muore perdiamo un cliente”. Si mette a ridere pure lei, poi chiede delle fette così sottili che sembrano trasparenti. “Un dipendente non potremmo pagarlo, se non fosse per il figlio che ci aiuta…”. I cavalli arrivano dalla Polonia, hanno una carne grassa e gustosa e soprattutto in Italia di allevamenti non ce n’è. “Tanto è un mestiere che va per finire”. Chiedo del fegato di cavallo ma è un cibo proibito. “Al suo amico porti quello di vitello, non si accorgerà della differenza”. Peccato, gli sarebbe piaciuto riceverlo nella carta di un vecchio macellaio di Barriera, che nel quartiere vorrebbe usare il lanciafiamme e invece resta in silenzio, dietro al banco, con gli occhi piccoli e pensierosi.

 

I cavalli arrivano
dalla Polonia, hanno
una carne grassa
e gustosa. In Italia
di allevamenti
non ce n'è.
"È un mestiere
che va per finire"

Le vere fiammate da queste parti le ha portate Alessandro Bulgini, un artista che da Livorno si è trasferito qui e ha messo Barriera di Milano al centro delle sue azioni. Ha una maglietta rossa con scritto Opera Viva e fa arte per cambiare il mondo. Non è un mestiere ma una vera vocazione. “Se non ci fossero i problemi, non ci sarebbe l’arte”. Tra queste bancarelle, come i pazzi di una volta, non si può più fare a meno di lui. In due anni, sui marciapiedi, ha disegnato ottanta cerchi in gesso nella zona del mercato, come se gli alieni fossero atterrati proprio qui e l’anno scorso ha portato le sue luci d’artista in Barriera, due ore al freddo e al buio in cima a una scala a pioli, in diversi punti del quartiere e al centro della piazza, una performance solitaria, senza chiedere niente a nessuno, perché l’arte non si dimentichi di loro. Lavora in una scuola elementare non diversa dall’Istituto Gabelli, un edificio liberty che prende tutto l’isolato, costruito nel 1915 per i figli degli operai. In certe classi ci sono nove stranieri su dieci e Bulgini insegna loro a volare e alla fine del quinto anno fa cucire sulla giacca il grado di aviatore così, anche chi è cresciuto su questi banchi, può sognare di spiccare il volo.

 

Nel parchetto di fronte al mercato c’è una scritta: “Riqualificazione = via i poveri”. C’è chi teme che qualunque intervento possa solo peggiorare la situazione, far salire il costo degli affitti, far sfrattare chi il lavoro l’ha perduto. Gli ipermercati si muovono di continuo, arrivano e prosciugano tutto ma in Barriera c’è qualcuno che ha ancora voglia di resistere. “No – dice Enzo – noi non possiamo andarcene. Siamo di Barriera e ne siamo orgogliosi. Non potremmo mai vivere da un’altra parte”.

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