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la legge che serve
Il cattolico al voto sul fine vita
A fronte di una legge ingiusta già in vigore o messa al voto, se non è possibile abrogarla o scongiurarla, per il parlamentare credente è lecito sostenerne una restrittiva. Evitarne una peggiore si configura come un bene
Il parlamentare cattolico deve vigilare affinché non s’inneschi il fenomeno del piano inclinato, in cui l’ammissione di una pratica per casi speciali, sancita dalla non punibilità della stessa in talune circostanze, apre all’inclusione di situazioni sempre più diffuse. Vedansi il caso belga e olandese a riguardo di eutanasia e suicidio assistito
Il dibattito inerente al fine vita anima il mondo cattolico. I parlamentari, chiamati a legiferare, si chiedono se sia lecito avallare il testo-base della proposta di legge in esame al Senato sulle Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita (testo unificato approvato dalle commissioni riunite Giustizia e affari sociali). Alcuni escludono ogni coinvolgimento, in quanto costituirebbe un’indebita cooperazione al male; altri reputano che in caso di necessità, a fronte di una legge iniqua già vigente o che sta per essere messa al voto, è lecito sostenere proposte mirate a limitare i danni di una situazione ingiusta, anche quando si prevede l’approvazione di una norma peggiorativa dell’assetto attuale, in quanto costituirebbe un contenimento del male compiuto da altri.
Prima di entrare nel dibattito, s’intende segnalare il motivo per cui un sistema giuridico pro eutanasico e suicidario assistito è iniquo. Anzitutto sottende un supposto diritto di morte, sintagma che costituisce un ossimoro, composto da termini che si elidono. Cardine dell’ordinamento giuridico è il diritto alla vita, in quanto condizione degli altri diritti, che esprimono le capacità implicite nell’esistenza umana. Mentre le disposizioni giuridiche che avallano l’eutanasia e il suicidio assistito ledono la giusta convivenza civile, fondata sul basilare diritto alla vita, il divieto di eutanasia e suicidio assistito, lungi dall’essere una forma d’ingiustizia o limitazione della libertà, tutela e difende il soggetto, in specie se fragile e vulnerabile: “Sono gravemente ingiuste le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso. Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana … Una società merita la qualifica di 'civile' se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza” (Samaritanus bonus 5,1). Nelle fasi critiche della vita non si deve introdurre un presunto diritto alla morte ma potenziare il fattivo diritto alla cura, che esprime il primario diritto alla vita.
Poi, data la valenza culturale del dispositivo giuridico, che permette o reprime specifiche condotte ma altresì esprime una determinata visione delle cose, legittimare l’eutanasia e il suicidio assistito produce stigma sociale verso la vita provata da patimenti, ancor più nell’odierna società consumistica, che funziona nella logica dell’utile e dilettevole, in base a cui valuta la dignità della vita. Disposizioni giuridiche a sostegno dell’eutanasia e del suicidio assistito inducono la società a considerare gli ammalati una zavorra, spingendo i malati stessi a ritenersi un intralcio, come ammoniva Cicely Saunders, iniziatrice dell’Hospice Movement: “Dovesse passare una legge che permettesse di portare attivamente fine alla vita su richiesta del paziente, molte delle persone 'dipendenti' sentirebbero di essere un peso per le loro famiglie e la società e si sentirebbero in dovere di chiedere l’eutanasia. Ne risulterebbe come conseguenza grave una maggiore pressione sui pazienti vulnerabili per spingerli a questa decisione privandoli così della loro libertà”. Le considerazioni relative all’incidenza della legge sui costumi in materia di fine vita trovano riscontro nella sentenza 135/2024 della Consulta, che rileva “la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva … si crei una pressione sociale indiretta su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte”.
Chiarita l’iniquità di leggi che ratificano l’eutanasia e il suicidio assistito, si deve rispondere alla suddetta domanda: è lecito che il parlamentare cattolico accordi il proprio assenso a leggi ingiuste? Se sì, a quali condizioni? A nostro parere non va pregiudizialmente squalificata la possibilità che il politico cattolico sostenga leggi volte a contenere dispositivi normativi ancor più iniqui, come insegna l’indagine sulle leggi ingiuste, di cui si vuole rendere conto. Certo valutandone l’opportunità, tenendo conto delle circostanze: è materia di prudenza politica. Le leggi ingiuste sono tali in quanto contrarie all’ordine morale naturale (taluni parlano anche di leggi imperfette, l’equiparazione è però imprecisa, dato che queste a rigore indicano leggi perfettibili), che deve orientare le scelte politiche: “La legge naturale, universalmente valida al di là e al di sopra di altre convinzioni di carattere più opinabile, costituisce la bussola con cui orientarsi nel legiferare e nell’agire, in particolare su delicate questioni etiche” (Leone XIV). La contraffazione dell’ordine morale naturale (che come tale vale per ogni persona ergo ogni parlamentare, sebbene necessiti di una debita istruzione, che la teologia cristiana ritiene pienamente possibile alla luce della Rivelazione) operata da leggi che contraddicono i beni basici per la persona (primo fra tutti il bene della vita), tramite cui si realizza il bene della persona, lede la dignità personale. E' questo il caso di leggi favorevoli all’eutanasia e al suicidio assistito, in quanto minano il principio di indisponibilità della vita, come previamente segnalato.
Al pari di ogni membro della società plurale, i cristiani sono tenuti a proporre la propria visione di vita consociata. Qualora l’orientamento primario contrastasse con le loro convinzioni e il legislatore promulgasse leggi che confliggono con principi irrinunciabili di coscienza, sono chiamati a segnalare la loro contrarietà e impegnarsi per modificarle: “Sono ingiuste le leggi che si oppongono al bene comune. Ad esempio, sono chiaramente e gravemente ingiuste le leggi che attentano o rendono legali gli attentati contro i diritti fondamentali della persona (diritto alla vita, alla libertà politica o religiosa) o contro istituzioni o rapporti sociali fondamentali (matrimonio e famiglia, patria potestà, esercizio della giustizia, ecc.). Le leggi ingiuste non obbligano in coscienza; anzi, c’è l’obbligo di non seguire le loro disposizioni, di non accettarle, di manifestare il proprio disaccordo e di cercare di cambiarle appena possibile e, se ciò non fosse possibile, di cercare di ridurre i loro effetti negativi” (E. Colom-A. Rodríguez Luño).
A fronte di una legge ingiusta già in vigore o messa al voto, se non è possibile abrogarla o scongiurarla, è lecito sostenerne una restrittiva. Una volta dichiarata la contrarietà agli esiti malvagi della legge che si sostiene per emendarne o evitarne una peggiore, contribuire a eliminare o restringere le disposizioni inique di una legge ingiusta si configura come un bene. Lo insegna Giovanni Paolo II laddove tratta del male minore in riferimento al caso delle leggi ingiuste favorevoli all’aborto (lo stesso dicasi per leggi a sostegno dell’eutanasia e del suicidio assistito), asserendo che non è lecito compiere un male minore per evitarne uno maggiore, a meno che quello minore sia già intenzionalmente compreso nel maggiore, già deliberato o in via di deliberazione, e a patto che si sia tentato in ogni modo di evitare qualsiasi male e non si dia scandalo: “Quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui” (Evangelium vitae 73).
Stante queste condizioni, il parlamentare cattolico che vota una legge restrittiva non compie il male minore, che non è mai lecito operare, cerca piuttosto di evitare almeno una parte di male già compiuto da altri. Mentre non è mai lecito compiere il male facendolo oggetto di un atto positivo di volontà, neppure per ricavarne del bene (Cfr. Humanae vitae 14; Veritatis splendor 80), a dispetto di quanto ritengono l’etica consequenzialista e proporzionalista, che desumono i criteri dell’agire dal calcolo delle conseguenze previste o della proporzione tra effetti buoni e cattivi, anziché ricavare i criteri di moralità dell’atto “dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata» e colto «nella prospettiva del soggetto agente” (Veritatis splendor 78), è invece lecito tollerare un male minore operato da altri e non reprimerlo per evitarne uno maggiore. In sintesi, in caso di legge ingiusta messa al voto o già in vigore, il parlamentare cattolico deve domandarsi se ha fatto il possibile per evitare ogni male; qualora la risposta sia affermativa, una volta chiarita la contrarietà all’eutanasia e al suicidio assistito e alla loro permissione legale, al fine di evitare il pubblico scandalo, può conferire il proprio consenso.
Rispetto al testo unificato relativo al suicidio medicalmente assistito (SMA), va rilevata la sua iniquità, in quantodepenalizza in alcuni casi il reato di aiuto al suicidio (art. 2), secondo le direttive della sentenza 242/2019 della Consulta, compromettendo il su evocato principio di indisponibilità della vita, che pure è teoricamente riaffermato (come è peraltro ribadito nella sentenza 135/2024, secondo cui il diritto alla vita non va sottoposto al bilanciamento di valori). Non va però esclusa la possibilità che il parlamentare cattolico suffraghi tale proposta di legge. Non perché si limiterebbe ad agire in conformità a quanto stabilito dai giudici costituzionali. Mai la responsabilità viene meno per il fatto di ratificare disposizioni inique prese da altri. Né perché la sentenza 242/2019 avrebbe stabilito un perimetro a cui il Parlamento dovrebbe conformarsi. L’azione parlamentare non è vincolata dalle sentenze promulgate dalla Consulta. Ancor meno dalla suddetta sentenza, che non ha introdotto il diritto al suicidio assistito, che continua a costituire reato, ha piuttosto introdotto la causa di non punibilità qualora un medico dia corso alla procedura di suicidio assistito in presenza di patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, capacità di prendere decisioni consapevoli e libere. La 242/2019 prevede la depenalizzazione per il reato di suicidio assistito qualora il giudice appuri che il medico si muove nei limiti stabiliti dalla Consulta. Motivo per cui la sua attuazione non impone né necessita di norme che ratifichino quanto da essa stabilito. Neppure perché si colmerebbe un vuoto legislativo, che sarebbe causa di disordine. La legge non è riducibile a mero dispositivo preposto a regolare prassi sociali in atto, come ritenevano i fautori della legge 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza e come sostengono i promotori della proposta di legge sul SMA. La legge va intesa come ordinamento della ragione (ordinatio rationis), preposta a regolare i rapporti sociali secondo giustizia. Bensì perché il sostegno al testo unificato, che pure peggiora l’assetto giuridico attuale, limita i danni che deriverebbero dall’approvazione di leggi ancor più inique promosse da altri, che restano i responsabili del male deliberato.
Va infatti rilevato che, in virtù dell’accordo raggiunto tra le opposizioni, è stato calendarizzato il disegno di legge Bazoli, sfruttando il regolamento del Senato, secondo cui “i disegni di legge, gli altri di indirizzo e gli atti di sindacato ispettivo sottoscritti da almeno un terzo dei senatori sono inseriti di diritto nel programma dei lavori del calendario” (art. 53). Il ddl Bazoli è decisamente aperturista verso il suicidio assistito, in quanto estende le condizioni di non punibilità al suicidio assistito previste dalla 242/2019 a situazioni di malattia cronica inguaribile, anche quando non si prevede il decesso imminente. Per il parlamentare cattolico è dunque moralmente accettabile votare il testo unificato, in quanto riduttivo rispetto al ddl Bazoli, che troverebbe consenso tra i banchi del Parlamento, a motivo delle diverse anime rinvenibili nella maggioranza di governo, talune prossime alle istanze ivi contenute. Mentre votare contro o non votare il testo unificato darebbe testimonianza impedendo però una restrizione opportuna rispetto al ddl Bazoli, votare a favore dal punto di vista letterale significa ratificare un testo permissivo ma dal punto di vista sostanziale significa ratificare un testo limitativo rispetto alla permissività del ddl Bazoli.
Il parlamentare cattolico è dunque autorizzato a conferire il proprio voto al testo unificato, è però altresì tenuto a vigilare affinché non s’inneschi il fenomeno del piano inclinato (slippery slope), in cui l’ammissione di una pratica per casi speciali, sancita dalla non punibilità della stessa in talune circostanze, apre all’inclusione di situazioni sempre più diffuse, come attestano il caso belga e olandese proprio a riguardo di eutanasia e suicidio assistito. E' compito del parlamentare cattolico partecipare alla “funzione profetica della Chiesa” (Sollicitudo rei socialis 41), che include l’annuncio delle forme di vita dischiuse dal Vangelo ma altresì la denuncia dei mali e delle ingiustizie. Nel caso in esame è impellente che rimarchi le derive nocive di un assetto permissivo rispetto al SMA, che mina i fondamenti del bene comune e della socialità, è poi urgente che segnali la necessità di tutelare l’indipendenza del potere legislativo da quello giudiziario. Oggigiorno si registra infatti una certa giurisprudenza creativa, che riguarda i giudici ordinari e della Consulta, che svolgono un’azione marcatamente interpretativa, che ne amplia gli spazi di discrezionalità e conduce a esercitare la giurisdizione in modo creativo, spesso sconfessando e talora orientando le disposizioni del legislatore. Gli organi giurisdizionali, che nella figura del giudice dovrebbero avere solo o prevalentemente funzione attuativa e nel caso della Consulta dovrebbero vagliare la legittimità costituzionale delle norme, sovente intervengono proattivamente, assumendo indebitamente il profilo di organi di indirizzo politico.
Per i giudici ordinari, si pensi alla stepchild adoption (adozione del figlio biologico di un coniuge da parte dell’altro coniuge), possibilità espressamente riservata dalla legge alle coppie di coniugi, progressivamente estesa dalla giurisprudenza di merito alle coppie conviventi, anche omosessuali, in nome di una mutata coscienza sociale e di una valutazione in concreto del best interest of the child. Per le coppie omosessuali la prima pronuncia del Tribunale Roma 429/2014 è stata confermata dalla Corte di Cassazione 12692/2016 e dalla giurisprudenza successiva unanime, nonostante tale limite fosse stato ribadito anche dalla legge Cirinna 76/2016 per le unioni civili. Tale interpretazione è stata ulteriormente estesa, già con sentenza del Tribunale di Roma del 23.12.2015, alle adozioni di bambini nati da maternità surrogata, in Italia vietata dall’art 12 c.6 della legge 40/2004. Per i giudici della Corte Costituzionale, sul piano contenutistico si pensi alle sentenze che hanno stravolto la legge 40/2004, dichiarando incostituzionale l’obbligo di produrre al massimo tre embrioni da impiantare insieme (151/2009), il divieto all’eterologa (162/2014), il divieto di diagnosi preimpianto sugli embrioni (96/2015). Sul piano ordinamentale si pensi all’ordinanza 207/2018, che ha ingiunto di colmare un supposto “vuoto legislativo”, ingenerando l’idea di un’inerzia e inadempienza del Parlamento, nonostante l’approvazione della legge 219/2017 su consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento. Si pensi altresì alla sentenza 242/2019, che non si è limitata a valutare la costituzionalità dell’art. 580 del codice penale ma ne ha riscritto la seconda parte, elencando i casi in cui è lecito assistere terzi nel porre fine alla propria vita. La sentenza non rientra tra quelle di tipo additivo, volte ad aggiungere un aspetto trascurato dalla norma o a precisarla, dato che si è spinta a riscrivere la norma, assumendo un compito esclusivo del Parlamento, esondando rispetto alle proprie mansioni.
Concludendo, il parlamentare cattolico può lecitamente accordare il proprio assenso al progetto di legge sul SMA in esame al Senato, certo provando a emendarlo e apportarvi miglioramenti. A tal fine, s’intende segnalare tre elementi del testo unificato che andrebbero rivisitati. Il primo concerne il comitato nazionale di valutazione, preposto ad appurare che sussistano i presupposti previsti dalla sentenza 242/2019, che sanciscono la depenalizzazione del suicidio assistito. Si tratta di una nomina governativa, che comporta uno schieramento politico, che si presta a prese di posizione preconcette. La designazione dei componenti andrebbe dunque ridefinita in base a criteri non riconducibili unicamente a quello partitico, ad esempio coinvolgendo gli ordini delle rispettive figure professionali. Va poi rilevato che prevede la partecipazione di un bioeticista, qualifica che in Italia non è contemplata, ragione per cui andrebbe sostituita con docente di bioetica o simili. Infine, l’istituzione a livello nazionale impedisce di valutare la particolarità dei casi, andrebbe pertanto prevista almeno su scala regionale.
Il secondo concerne il mancato coinvolgimento del Sistema Sanitario Nazionale. In conformità alla sentenza 242/2019, secondo cui “la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”, il SSN non è tenuto a fornire il servizio, cosa che comporterebbe un esiziale mutamento nella visione e pratica sanitaria, in quanto indebolirebbe il ruolo del personale sanitario, tradizionalmente orientato alla cura e conservazione della vita, altrimenti inteso come eventuale agente erogatore di morte. D’altra parte, l’esclusione del SSN comporta il rischio che la pratica del suicidio assistito avvenga in strutture non controllate, con i pericoli annessi. Sarebbe dunque auspicabile un ruolo non esecutivo ma di garante, stabilendo dove e come la pratica va espletata.
Poscritto. È notizia recente che la sentenza 132/2025 nel confermare la costituzionalità dell’art. 579 del Codice Penale, che persegue l’omicidio del consenziente, sembrerebbe avere introdotto anche un ruolo esecutivo per il SSN, laddove asserisce che dovrà prontamente acquistare e mettere a disposizione gli strumenti di autosomministrazione della sostanza capace di porre fine alla vita attivabili dal malato che intende porre termine alla propria vita in conformità ai criteri della 242/2019. Fermo restando che questo è da verificare, appurando ad esempio se il SSN deve altresì reperire il suddetto strumento, qualora così fosse la sentenza replicherebbe l’attitudine creativa prima denunciata, in quanto sarebbe creativa di nuovi diritti e incidente sull’attività legislativa del Parlamento.
Il terzo concerne l’obbligo di inserimento nel percorso di cure palliative. Se è condivisibile l’intenzione restrittiva sottesa, risulta invece problematica la logica implicita, che lede il diritto al rifiuto dei trattamenti, previsto peraltro dalla Costituzione (art. 32), e ingenera l’idea secondo cui le cure palliative costituirebbero una sorta di lasciapassare al suicidio assistito, anziché riconoscerle nella loro specificità, come percorso alternativo all’eutanasica e al suicidio assistito (altresì all’accanimento terapeutico), e prodigarsi perché siano disponibili sul suolo nazionale, come auspicano peraltro le sentenze 135/2024 e 66/2025 della Consulta, che rivolge uno “stringente appello al legislatore affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito”. Le cure palliative rappresentano una preziosa risorsa per lenire quello che Cicely Saunders era solita chiamare “total pain” in riferimento al dolore fisico, all’afflizione psicologica, alla sofferenza spirituale e al disagio sociale che la malattia provoca, tanto più se protratta, debilitante e terminale. La risposta all’atroce problema del dolore totale non si rinviene nell’eutanasia e nel suicidio assistito ma nell’assistenza competente e solidale al malato, secondo le parole di Umberto Veronesi, che pure si diceva favorevole a tali pratiche: “Se è curato bene, difficilmente il paziente chiede di morire. Se è curato con affetto, con amore, senza dolore, non chiederà la buona morte” (Da bambino avevo un sogno).
*L'autore è medico, sacerdote e teologo


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