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editoriali

La sentenza sull'aborto che scontenta tutti

redazione

La Corte suprema lascia in vigore la legge texana, ma ammette i ricorsi

La Corte suprema americana ha stabilito quasi all’unanimità (otto giudici contro uno, la liberal Sonia Sotomayor) che per ora la legge varata lo scorso settembre dal Texas che vieta l’aborto dopo le prime sei settimane di gravidanza resterà in vigore. Gli stessi giudici, però, hanno ammesso la possibilità di ricorrere nei confronti della legge stessa presso i tribunali federali.

È un giudizio che scontenta tutti: i movimenti pro choice e in difesa dei diritti delle donne auspicavano il blocco della legge, che è la più restrittiva vigente in tutti gli Stati Uniti. I pro life, invece, che puntavano al bottino pieno (legge dichiarata legittima e impossibilità di ricorrere) temono ora che le corti federali saranno invase da ricorsi, in particolare da parte delle cliniche che praticano l’interruzione di gravidanza e che da mesi denunciano una fuga verso gli stati confinanti di donne intenzionate ad abortire. È impossibile, stante il “compromesso” di ieri, intuire quale sarà, a fine giugno, la decisione della Corte suprema sulla controversa legge del Mississippi che vieta l’interruzione volontaria della gravidanza dopo quindici settimane.

Il dibattimento della scorsa settimana a Washington ha portato la gran parte degli osservatori a ritenere probabile un rovesciamento completo della sentenza Roe vs Wade del 1973 che ha legalizzato l’aborto a livello federale, considerato che il fronte conservatore appare compatto e anche Brett Kavanaugh, il giudice di nomina trumpiana considerato più “aperto” a soluzioni compromissorie, ha sostenuto le tesi dei colleghi Alito, Gorsuch e Barrett, chiedendo ai rappresentanti dell’Amministrazione quale fosse l’obiezione al fatto che la regolamentazione dell’aborto fosse demandata ai singoli stati. La sentenza sulla legge del Texas non aiuta a capire come andrà a finire.

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