La sede Google a Irvine in California (foto LaPresse)

Socialismo digitale

Giulio Meotti

Google licenzia l’ingegnere eretico. Niall Ferguson: “Trump è un dilettante, i nuovi tiranni si trovano a sinistra”

Roma. Prima ci fu il caso di Brendan Eich, il genio creatore di una delle lingue “universali” del web (il Java) e di Firefox, l’amministratore delegato di Mozilla costretto alle dimissioni previa campagna di demonizzazione per aver donato mille dollari alla campagna in favore del “sì” al referendum della California per vietare i matrimoni gay. Charles Krauthammer lo definì “un linciaggio high tech”. Adesso tocca a James Damore, senior software engineer di Google, ingegnere della divisione software con anzianità di servizio. Nei giorni scorsi il dipendente del gigante high tech, in forma anonima, aveva diffuso nelle chat interne all’azienda un manifesto contro la “cassa di risonanza ideologica” della Silicon Valley. Secondo l’autore dentro Google ci sono idee “troppo sacre per venire messe in discussione”. Google non dovrebbe impegnarsi poi a creare programmi di sostegno alle minoranze, ma garantire a tutti libertà di opinione, anche ai suoi dipendenti più conservatori e non allineati con le idee della compagnia, ritenute di sinistra. Damore aveva anche parlato del fatto che “le donne sono biologicamente diverse”. Monsieur de La Palisse. Ma nella valle del silicio, questo diventa “discorso dell’odio”. Il ceo di Google, Sundar Pichai, ha chiamato il manifesto di Damore e la condotta dell’ingegnere “contraria ai nostri valori”. “Quel documento parte da assunti scorretti sul gender, sono tesi che Google condanna”, ha detto Danielle Brown, la vicepresidente per la diversity, l’integrità e la governance. E ancora: “Da noi c’è libertà di parola, ma nel rispetto dei princìpi di eguaglianza delle opportunità fissati dal nostro Codice di condotta e dalle leggi antidiscriminazione”.

  

È il “but” che fa sempre la differenza nel “socialismo digitale”, come Wired ha definito la Silicon Valley. Alla fine, l’ingegnere James Damore è stato licenziato dopo una caccia al reprobo che nella piattaforma interna aveva osato rendere virale simili idee reazionarie. Accompagnato alla porta per aver dissentito dai canoni culturali in vigore nella valle, che David French sulla National Review ieri ha definito “enclave di monocultura ideologica”.

Sei mesi di attacchi e censura 

Sul Times di Londra, lo storico di Harvard e Stanford, Niall Ferguson, attacca definendo la sinistra “la principale minaccia alla libertà di espressione”. Trump a confronto è un novellino, “bloccato dalle corti, frustrato dal Congresso, assalito dalla stampa, il presidente è passato dalla tirannia alla sciocchezza alla pagliacciata con la velocità di un grassone che scivola su una buccia di banana”. Innocuo, dunque. Secondo Ferguson invece “la sinistra moderna americana ha sete di sbarazzarsi di una delle protezioni più fondamentali che la Costituzione americana sancisca: la libertà di parola”.

  

A febbraio, gruppi di facinorosi liberal a Berkeley hanno impedito di parlare a Milo Yiannopoulos, giornalista e provocatore; a marzo, la folla nel Vermont ha chiuso la bocca a Charles Murray, che non è un troll trumpiano, ma un serio e rispettato scienziato della politica; ad aprile, al californiano Claremont McKenna College è stata tolta la parola a Heather Mac Donald, ricercatrice rea di avere idee diverse sulla polizia di quelle di Black Lives Matter, mentre sempre a Berkeley si deprogrammava un discorso di Ann Coulter; a maggio, un professore, Bret Weinstein, è stato assalito dagli studenti all’Evergreen State College; a giugno, Berkeley ha annullato la presentazione di un libro di Richard Dawkins, ateo “islamofobo”. E questo per restare soltanto agli ultimi sei mesi e all’interno dell’accademia.

  

“Segnatevi le mie parole, mentre posso ancora pubblicarle impunemente”, conclude Niall Ferguson. “I tiranni veri, quando verranno, saranno per la ‘diversità’ (tranne che per quella di opinione) e contro il ‘discorso dell’odio’ (tranne il proprio)”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.