In nome della legge: Isacco, Charlie Gard e gli affanni della modernità

L. P. V.

Non è più solo l’uomo che si sostituisce con la sua libertà a Dio, ma l’ordinamento che si erge a difensore e carnefice della dignità dei suoi cittadini

È giusto chiedere ai genitori di sacrificare la vita e l’amore del proprio figlio in nome di un interesse più grande? Nella tradizione giudaico-cristiana questa drammatica domanda riecheggia nella complessa storia di Abramo e suo figlio Isacco, fortemente desiderato dal Padre dopo lunghi anni di attesa, e poi richiesto da Dio in olocausto come prova di fedeltà. Come noto, l’inumano gesto non fu poi consumato perché Dio stesso, avuta testimonianza della fede di Abramo, fermò poi la sua mano sostituendo nel sacrificio il figlio con un ariete. Nella tradizione ebraica il gesto di Abramo e la risposta misericordiosa di Dio sono letti in modo congiunto per spiegare che la giustizia e la salvezza degli uomini viene da Dio; come ricordato da Genesi 15:6 infatti, “Abramo credette al Signore, che gli contò come giustizia”.

  

Ma la stessa domanda emerge oggi, in modo forse ancora più drammatico, nella complessa vicenda di Charlie Gard, bambino di dieci mesi affetto da una rarissima patologia a cui i giudici inglesi prima, e la Corte europea dei diritti dell’uomo oggi, hanno deciso di staccare il supporto vitale in nome del presunto “best interest” del paziente e contro la ferma volontà dei suoi genitori, che chiedono invece – a loro spese – di poter provare a salvare Charlie sottoponendolo a cure sperimentali negli Stati Uniti.

 

Il caso, come spesso accade nel campo della bioetica, è complicato. I giudici inglesi, infatti, hanno discusso il problema in due diversi gradi di giudizio, trovando in entrambi casi sufficienti evidenze scientifiche sull’inutilità della cura sperimentale richiesta dai genitori, e ritenendo invece corretto la diagnosi medica che riscontra l’impossibilità per Charlie di salvarsi dal continuo aggravarsi della malattia. 

Ma perché un giudice? Perché il sistema inglese ha ritenuto necessario affidare ad una Corte la soluzione di un caso in cui – a differenza ad esempio delle vicende di Eluana Englaro o Terry Schiavo – entrambi i genitori chiedevano all’ospedale di mantenere, e non di interrompere, il trattamento di ventilazione artificiale che consentiva (e ancora consente) a Charlie di vivere? In nome di quale principio un ordinamento può opporsi alla volontà dei legali rappresentanti di Charlie decretando, con questo, la sua morte?

  

 

Sotto il profilo strettamente giuridico, la risposta a queste domande è ovviamente collegata alle regole dell’ordinamento britannico. Ma, in modo più ancor più radicale, tali risposte affondano le loro ragioni nella crisi delle democrazie contemporanee e nella pretesa, figlia della modernità, che l’uomo sia capace di creare sistemi perfetti in grado di garantire (e forse addirittura proceduralizzare) la felicità. 

 

In primo luogo, infatti, la decisione dei giudici inglesi parte dalla applicazione del diritto britannico sull’accanimento terapeutico, che dispone l’obbligo dei medici di interrompere le cure quando l’eccezionalità dei mezzi impiegati non risulta funzionale allo scopo medico. In applicazione di tali  disposizioni, i giudici inglesi hanno ritenuto che il progressivo aggravarsi della malattia di Charlie e le pochissime evidenze scientifiche legate alla cura sperimentale Statunitense costituiscono mezzi sostanzialmente inadeguati: gli stessi medici americani, interrogati sul punto, hanno peraltro ritenuto “altamente improbabile” che la cura sperimentale possa effettivamente portare ad un miglioramento delle condizioni di Charlie. 

 

Dal punto di vista generale, è interessante notare come il divieto di accanimento terapeutico sia un tema ampiamente condiviso non solo da tutti i sistemi giuridici, ma anche da tutte le filosofie di pensiero, tanto che la stessa Chiesa cattolica (solitamente molto intransigente nel respingere ogni forma di autodeterminazione orientata alla soppressione della vita umana) ha ripetutamente chiarito la legittimità morale di tale atto. Sotto il profilo giuridico, tuttavia, il caso si fa più problematico: è possibile derubricare come accanimento terapeutico la ventilazione artificiale, che è comunemente definita come un “life support”? E, soprattutto: come è possibile in questo caso accertare la volontà del paziente di rinunciare a tale trattamento? Nella vicenda di Charlie, infatti, non si tratta di negare ad un adulto consenziente la facoltà (e secondo alcuni il diritto) di interrompere trattamenti terapeutici o di supporto vitale in ragione di una scelta autodeterminata. Al contrario, siamo di fronte ad un obbligo, definito dalla legge e sancito dai giudici, di sospendere la vita del paziente contro la precisa volontà dei suoi legali rappresentanti, ovvero i genitori.

 

Proprio quest’ultimo aspetto costituisce il secondo nodo giuridico della decisione. Come deve comportarsi un ordinamento di fronte al contrasto tra la volontà dei genitori di Charlie e le regole giuridiche che, supportate da evidenze scientifiche proceduralizzate, definiscono la vita di Charlie come irrimediabilmente compromessa e forse non degna di essere vissuta? È qui che, nel procedimento giudiziale, emerge quello che il giudice definisce “best interest of the child”. Nel contrasto tra le due volontà (quella della scienza medica e quella dei genitori) emerge così, nel bilanciamento operato dai giudici, il problema di definire ciò che sia meglio per Charlie a partire dal suo diritto a vivere una vita che possa essere definita degna. 

 

Perché la decisione non può essere lasciata ai genitori? La risposta del giudice a questa domanda ha i toni inflessibili e gelidi del diritto: come ricordato dal giudice “sebbene ai genitori è spetti la responsabilità genitoriale, il controllo prioritario è affidato, per legge, al giudice che esercita il suo giudizio oggettivo ed indipendente nel migliore interesse del bambino”. La conseguenza di ciò è che, non potendo materialmente Charlie esprimere la sua volontà, il giudice finisce con l’escludere anche quella dei suoi genitori di tenerlo in vita in nome di un contestabile interesse a morire che è desunto da astratte regole giuridiche e da evidenze scientifiche standardizzate. Mosso da uno spirito quasi paternalistico, il giudice conclude quindi che non resta che augurarsi che, in futuro, “anche i genitori possano capire ed accettare che l’unica possibilità che è realmente nell’interesse di Charlie è di lasciarlo scivolare via pacificamente risparmiandogli altre sofferenze”. 

 

L’esito della vicenda ha due paradossali conseguenze. La prima è che nell’epoca della autodeterminazione e della espansione infinita dei diritti gli ordinamenti giuridici finiscono, rivolgendosi su loro stessi, per dichiarare con sentenza la massima compressione della libertà altrui in nome di un parametro (le ingiustificate sofferenze) che non sono in realtà in grado di accertare. Nato per difendere la libertà e la dignità dei cittadini dall’arbitrio dello Stato, il costituzionalismo liberale finisce così per rinnegare sé stesso e per imporre criteri giuridici astratti attraverso i quali distinguere una vita degna da una che non deve essere vissuta, ovverosia giungendo a conclusioni che avrebbero inorridito i primi teorici dello Stato liberale. Una conseguenza, questa, che più del liberalismo, pare essere figlia della malcelata pretesa dello Stato democratico-sociale di esser capace di rispondere ad ogni bisogno (e desiderio) della società. Mentre i liberali americani cercavano, attraverso pochi e definiti principi, di assicurare a tutti i cittadini il diritto di pursuit their happiness, le democrazie moderne tentano oggi di risolvere il problema dell’uomo definendo, attraverso per legge o per sentenza, una felicità/dignità preceduralizzata uguale per tutti.

 

In secondo luogo, questa vicenda pare essere l’esito dell’illusione positivistica per cui diritto (ma più in generale ogni scienza) sia ormai in grado di rispondere a tutti i bisogni e le paure della società: una volta definiti, i presupposti e i parametri dell’accanimento terapeutico necessitano solo di essere applicati. La conseguenza paradossale è che sganciati dai loro fondamenti ontologici e meta-giuridici, principi come quello della dignità umana, dell’uguaglianza, della liberà finiscono per divenire gusci vuoti che la legge (o – ancor peggio – il giudice) riempie a piacimento per realizzare la sua idea di giustizia. E così come ad Abramo fu chiesto di sacrificare suo figlio per testimoniare la sua fedeltà a Dio, ai coniugi Gard è chiesto oggi di sacrificare Charlie per affermare il principio della infallibilità della Legge. Non è più solo l’uomo che si sostituisce con la sua libertà a Dio, ma l’ordinamento che si erge a difensore e carnefice della dignità dei suoi cittadini. È nel nome della legge, quindi, che Charlie oggi muore: c’è forse da augurarsi che, misteriosamente, anche questa volta una mano pietosa ribalti una sentenza ormai scritta.