Foto USFWS Midwest Region via Flickr

Un incidente di caccia svela i limiti della legge. E della morale

Antonio Gurrado

Il caso del giovane ucciso da un cacciatore in provincia di Imperia ci mostra che il compromesso tra i regolamenti e l'etica è irrealizzabile: entrambi sono "zoppi" davanti alla tragedia

Come sempre è arduo distinguere fra il piano della tragedia – che in questo caso è doppia: quella del ragazzo morto e quella del cacciatore che lo ha ucciso per errore – e il piano della teoria, sia in materia di legge sia in materia di etica. A maggior ragione perché la vita che si è spenta è molto giovane, le immagini sui giornali e in tv ce la mostrano bella e luminosa, e l’assurdità del morire perché scambiati per un cinghiale ripugna alla ragione oltre che al cuore di ciascuno. I contorni confusi dell’accaduto, che già lasciano presagire per i prossimi giorni la bolsa retorica del giallo, intorbidano inoltre la serenità di giudizio affossandola in interrogativi da talk show: il fucile trovato accanto al giovane gli apparteneva? Come mai non aveva il porto d’armi? Stava facendo una passeggiata o partecipava alla battuta di caccia? Si trovava dietro un cespuglio?

    

A questi interrogativi, nessuno dei quali esaurisce l’abissale quesito sul perché di tanto strazio, risponderà la procura di Imperia, che sta indagando sulla dinamica degli eventi e li ricostruirà a dovere, come spetta alla giustizia, solo quando l’ondata emotiva sarà passata e sarà rimasta solo una lontana eco del dibattito che si sta innescando adesso riguardo alla liceità e all’opportunità della caccia. Forse, è triste dirlo, avremo risposte quando la fame nervosa della cronaca ci avrà fatto dimenticare il dramma, soppiantato da altri drammi, altri casi, altri gialli; ci resterà allora solo un’eco lontana della polemica, e ricorderemo vagamente che qualcuno (il Wwf? la Brambilla?) ha richiesto di abolire la caccia perché era successa una disgrazia. Ricorderemo a stento cosa di preciso: un ragazzo, forse.

   

Come sempre, in realtà, la situazione è più complessa. Il Wwf ha richiesto alla Regione Liguria di sospendere la stagione venatoria (la caccia al cinghiale a Imperia era iniziata due settimane fa e destinata a durare fino a metà dicembre) in segno di lutto ma ha anche diramato un comunicato in cui definisce la caccia “gioco anacronistico e inaccettabile che fa danni alla fauna, già stressata da inquinamento, alterazione dell’habitat e cambiamenti climatici, all’ambiente e a chi ha diritto a godere della natura in modo sano. […] Una giovane vita è stata stroncata a causa di un’attività che oggi non ha più ragione di esistere”. Michela Vittoria Brambilla, che presiede il Movimento Animalista, ha dichiarato che “l’Italia è un paese fortemente antropizzato” in cui “per la caccia non c’è posto”; come il Wwf denuncia “i danni enormi che la caccia infligge al patrimonio naturale del nostro paese e i rischi inaccettabili cui l’onnipresenza delle doppiette nei boschi e nelle campagne, durante la stagione venatoria, sottopone chi vorrebbe semplicemente godersi, in santa pace, l’aria aperta”. La Federcaccia invece, raccomandando per l’ennesima volta ai praticanti “la massima attenzione e prudenza”, ha espresso dolore e vicinanza per la tragedia riservandosi tuttavia di astenersi “da esprimere giudizi sull’accaduto […] in attesa di apprendere l’esito delle indagini in corso, non conoscendo le dinamiche dell’incidente”.

    

Il motivo per cui la posizione degli animalisti e quella dei cacciatori non collimano, a eccezione che nella pietà umana, è che i primi la esprimono sul piano etico e i secondi sul piano legale. È innegabile che esista una fattispecie di reato che contempla quanto è accaduto a Imperia: la procura infatti sta indagando il cacciatore per omicidio colposo. E consiglio a chiunque di leggere, per quanto noiosissime, le norme e direttive contenute nel regolamento della Provincia di Imperia per l’esercizio della caccia al cinghiale nonché il calendario venatorio in essere diramato dalla Regione Liguria. Si tratta di pagine e pagine che comprovano come la caccia sia un’attività sottoposta a una capillare disamina della distinzione fra ciò che è consentito e cosa no; noi profani ne ricaviamo l’impressione di un controllo occhiuto il cui scopo è assicurarsi che i rischi vengano ridotti al minimo e che, come dimostra l’indagine della procura di Imperia, ogni casistica che traligna possa essere sottoposta a un rapido intervento della legge.

    

La legge tuttavia non esaurisce le questioni etiche; ossia il fatto che un’azione sia consentita o meno non coincide con la definizione del suo essere moralmente accettabile o no. Se così fosse, una notizia tremenda come questa lascerebbe tranquillo il nostro animo; invece, la morale critica dove la legge vigila. In questa sfasatura si collocano le rimostranze degli animalisti, i quali vedono nella tragedia – e nella sua incomprensibilità profonda che nessuna sentenza potrà mai appianare – la conferma estrema dei danni inflitti dalla caccia e del suo anacronismo. Ciò che preme loro non è se la caccia sia regolamentata ma se vada considerata giusta in senso assoluto. Questo implica però alcune confusioni, ad esempio lì dove la caccia viene gettata in un calderone di attività ritenute malvagie nei confronti dell’ambiente ed equiparata all’inquinamento: a un’attività umana, insomma, che non può essere cancellata del tutto (senza inquinamento niente civiltà umana così come oggi la conosciamo) ma va regolamentata nei dettagli, esattamente come già accade con la caccia stessa. Inoltre, a rigore, l’inopportunità etica della caccia andrebbe rilevata indipendentemente dalle occasionali disgrazie che comporta, e quindi la tragedia su cui fanno leva le dichiarazioni degli animalisti (sentite e sincere, senza dubbio, vista l’entità del trauma) dovrebbe risultare ininfluente nel loro giudizio morale. È uno dei duri paradossi a cui si va incontro quando si astrae l’etica dalla legge.

      

Sia i regolamenti sia la morale si scoprono dunque zoppi di fronte a quest’evento tremendo e, se il buon senso suggerisce di trovare un punto d’incontro fra questi due corni del dilemma, la verità è che tale compromesso è irrealizzabile poiché la legge s’illude che a tacitare l’indignazione basti il corso delle indagini mentre l’etica impone che un astratto senso della giustizia spinga all’eccesso di disfarsi di leggi scritte e limate per anni. Si tratta, a ben vedere, della rappresentazione plastica di un’impasse tutto italiano. Siamo schiacciati dal contrasto fra una mole incontrollabile di norme sedimentate che regolamentano ogni cavillo della nostra vita e un’istintiva tendenza a incardinare le grandi riforme su impeti emotivi che cavalcano contingenze. E, in base alla nostra sfera d’interesse, in queste collisioni finiamo per prendere ora le parti della legge ora quelle della morale augurandoci che l’una decapiti all’altra: è una propensione all’annichilimento che ci porta a sbraitare contro le automobili ogni volta che si verifica un incidente stradale ma a ricorrere alle minuzie dei codici ogni volta che la coscienza ci fa sentire in difetto; ed è la scorciatoia a cui ricorriamo più spesso quando c’indigniamo per qualcosa che presto dimenticheremo.