(foto LaPresse)

Sicuri che per migliorare la scuola italiana occorre spendere di più?

Antonio Gurrado

Secondo Eurostat il nostro paese è terzultimo per investimenti in istruzione. Ma i valori percentuali sono molto simili a quelli della Germania. Il problema semmai è incentivare la crescita 

È una notizia che non è una notizia, nella stretta accezione di novità, la graduatoria dell’Unione Europea riguardo alla destinazione della spesa statale nei Paesi membri. I dati Eurostat (relativi al 2015) testimoniano che l’Italia è il secondo paese che ha investito di più per gli anziani e il terzo paese che ha investito di meno nell’istruzione. Si può dire che le due notizie fossero prevedibilissime - basta una rapida ricerca a ritroso su Google - e soprattutto che siano, neanche tanto sottilmente, correlate. Siamo una nazione che guarda indietro, che tampona e non scommette, che preferisce la gallina vecchia all’uovo oggi: gli economisti ci spiegheranno se quest’interpretazione è corretta o troppo allarmista. Io che non m’intendo affatto di economia ma m’intendo abbastanza di insegnanti, so già che questi dati saranno commentati acrimoniosamente dopodomani, alla riapertura degli istituti, quando nelle scuole di tutta Italia sono in programma i primi collegi docenti del nuovo anno. Chi lavora nella scuola si lamenterà trovando nei dati europei conferma al fatto che in Italia l’istruzione viene vista come ruota di scorta rispetto ad altri settori privilegiati che la danneggiano. Ma a ben leggere la ricerca Eurostat contiene un paradosso: è vero che l’Italia spende per l’istruzione solo il 4% del Pil a fronte del 7% della Scandinavia, però è vero anche che la nostra spesa è accettabilmente vicina alla media continentale (4,9%) e soprattutto pressoché pari a quella della Germania, dove la scuola vive in una situazione che riteniamo invidiabile. Com’è possibile? Il problema è che la medesima percentuale di Pil da noi corrisponde a 65 miliardi e in Germania a circa 130. Di fatto dunque i  tedeschi spendono quanto noi in termini relativi ma spendono il doppio in termini assoluti. Ne consegue che, se si vuole migliorare la scuola italiana, bisogna incentivare la crescita di tutti i settori, compresi quelli che non erudiscono la nazione ma l’arricchiscono, e smettere di pensare che tutti i soldi investiti in ciò che non ha a che fare con l’insegnamento vadano necessariamente a discapito dell’istruzione.

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