Crowdfunding per i divorziati. Ecco l'ultima idea per chi tratta il matrimonio come una startup (pronta a fallire)

Simonetta Sciandivasci

La piattaforma Plumfund cerca soldi per aiutare chi lascia mogli e mariti. Sebbene il divorzio impoverisca e infeliciti, continuiamo a impegnarci per agevolarlo, anziché evitarlo.

Se parenti, amici, colleghi largheggiano in gioia, convinzione e assegni-regalo per i matrimoni, è ragionevole aspettarsi che facciano lo stesso per i divorzi. Sara e Josh Margulis lo hanno desunto da una chiacchierata con Arianna Huffington, che lo scorso anno aveva raccontato loro le ragioni per cui si era decisa a dedicare al divorzio una sezione specifica dell'HuffingtonPost, il blog intersecato al giornale che lei ha contribuito a fondare poco più di dieci anni fa. Così, i Margulis, cui l'umanità deve la piattaforma Plumfund (missione: “Crowdfunding libero per le persone che amiamo”), hanno deciso di inaugurare anche loro una category per i divorziati, in cui fosse possibile versare un' offerta libera per aiutarli a sostenere le spese (avvocato, psicanalista, trasloco, affitto, vitamine, figli, vizi dei figli, eventuale rehab).

 

Su Plumfund, da circa dieci anni, si fa crowdfunding per compleanni, anniversari, lauree, corredi, funerali, cure, viaggi e adesso anche per interruzione di matrimoni: ciascuno può raccontare la propria storia e chiedere un'offerta agli altri utenti. L'indugio sull’allargare i beneficiari della la  monetizzazione del divorzio (da mogli e divorzisti a imprenditori e divorce-planner) è una stupidaggine: lo ha detto, senza troppi peli sula lingua, Kevin O'Leary, che di Plumfund è socio e investitore, ricordando che almeno la metà dei matrimoni fallisce e non c'è alcun motivo per non capitalizzare la cosa. Se i festeggiamenti per il giorno delle nozze hanno creato un potente indotto economico che non conosce crisi, figuriamoci cosa riusciranno a creare i divorzi.

 

Ci sono poi i beneficiari diretti: i lui e le lei che sfasciano la promessa per non sfasciarsi la faccia o perché è l'ultima cosa ancora che resta loro da sfasciare (tutti abbiamo visto “La Guerra dei Roses” e sappiamo che la potenza distruttiva dei divorzianti può spingerli a fare la pipì nel branzino al forno davanti agli ospiti, sfondare la Jaguar, avvelenare cani e gatti domestici, svitare lampadari). A loro è importante assicurare un sostegno economico, non solo perché i divorzisti costano e sono abilissimi a lasciare in mutande – soprattutto – i mariti e i papà (vedere “Posti in piedi in paradiso” di Carlo Verdone) e perché ricostruirsi una vita è difficilmente sostenibile anche se la si ricostruisce da Ikea, dove sembra che per ogni impresa basti seguire poche e semplici istruzioni scritte in stampatello. Alle vittime di divorzio, cioè di matrimonio, è importante garantire quel sostegno per vincere il tabù, la vergogna, l'alienazione di cui si resta prigionieri quando si paga la parcella del matrimonialista: "i divorziati si chiudono in loro stessi, non riescono a chiedere aiuto. Il nostro, allora, è un modo per dire loro che non li lasciamo soli", ha dichiarato Sara Margulis. Per chi non volesse soldi, ma solo opere di bene, c’è l’hashtag #divorceselfie, per immortalare la resilienza e il coraggio di essere tra chi dice no, dopo aver giurato di dire sì per tutta la vita. Un seflie per sfidare il perbenismo che, stando ai Margulis, ghettizza i divorziati e li condanna all’onta eterna.  

 


Una scena del film "la Guerra dei Roses"


 

Pensare a Tza Tza Gabor, che essendo stata una donna incommensurabile non può diventare misura né del reale impatto di un divorzio né di nient'altro, pensare all'abuso disinvolto e fiero che faceva dei suoi tira e molla ("sono bravissima a tenere la casa: ogni volta che divorzio, tengo la casa", amava ripetere, salterellando da un altare all'altro dei nove che collezionò), ci conferma nell'ipotesi che il divorzio abbia smesso di essere un tabù, quantomeno da un punto di vista culturale, un quarantennio fa. Fare la morale a un tentativo di agevolare chi si trova effettivamente in difficoltà (inutile fingere che la legge abbia delle lacune), d'altro canto, non serve. Magari, però, può essere utile ricordare che il matrimonio è una scelta e il divorzio un ritrattamento di quella scelta: entrambi comportano obblighi e responsabilità, cioè inevitabili costi che non può assumersi nessun altro che chi li ha contratti.

 

A meno che non si voglia istituire un crowdfunding per ghigliottinare i testimoni di matrimoni che, spesso, anziché parlare e interrompere la celebrazione, pur sapendo che sta sigillandosi una tragedia certa, osano rispettare il libero arbitrio degli sposi (ignari del fatto che dopo essersi svenati per la lista-nozze, potrebbero doversi svenare ancora per la lista-divorzio) e tacciono, almeno fino al successivo “per sempre”.

 

Incredibilmente, sebbene il divorzio impoverisca e infeliciti, continuiamo a impegnarci per agevolarlo, anziché evitarlo, dimentichi del fatto che divorziare è un fatto discrezionale,  né obbligatorio per legge, né necessario alla sopravvivenza organica.

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