Urbano Cairo (foto LaPresse)

I tre ostacoli non insormontabili per lasciare il Corriere nelle mani di Cairo

Claudio Cerasa
Sulla carta, l’editore de La7 può essere ancora fermato, ma conviene? Dialogo tra Claudio Cerasa e Massimo Mucchetti sul futuro di Rcs

Al direttore - Il Foglio mi chiede come andrà a finire il tentativo di acquisizione di Rcs Mediagroup da parte della Cairo Communication dopo che Urbano Cairo ha risposto picche a Mediobanca, Fca, Della Valle, Unipol e Tronchetti Provera che avevano giudicato insufficiente la sua offerta. Rispondo così: se fossi in Urbano Cairo, mi preoccuperei di più degli investitori istituzionali che dei soci cosiddetti eccellenti, ormai ridotti al 22 per cento della Rcs in seguito all’abbandono di FCA e al passaggio di John Elkann alla corte di Carlo De Benedetti. Costoro, a eccezione di Unipol, entrata a giochi fatti avendo ereditato le posizioni dei Ligresti, hanno fin qui deluso scegliendo management inadeguati. Negli ultimi 10 anni, Rcs ha accumulato perdite nette per 1,2 miliardi. E pur registrando entrate di natura straordinaria per oltre un miliardo (cessioni e aumento di capitale), sconta ancora 411 milioni di debiti.

 

Nel 2006, quando gli “eccellenti” cacciarono Vittorio Colao, Rcs guadagnava 220 milioni e aveva zero debiti. Altri tempi? Altri tempi, certo. Ma Rcs ha sempre fatto peggio della Cairo Communication o, su un altro piano, del gruppo Espresso, che, sia detto di passaggio, costa molto meno. Certi stati patrimoniali, d’altra parte, non nascono dal nulla, ma provengono da gestioni insufficienti. Per il 2015 Rcs dichiara un margine operativo lordo di 16 milioni su oltre un miliardo di ricavi e una perdita finale di 175 milioni. Sui giornali leggo di un Ebitda di 72 milioni: è la versione che l’azienda diffonde togliendo al dato ufficiale gli oneri non ricorrenti. Ma quando gli oneri non ricorrenti ricorrono da un esercizio all’altro, chi scrive preferisce ancorarsi alle tabelle. E alla storia delle avventure spagnole che lasciano da smaltire ancora mezzo miliardo di attivi che reggono oltre 100 milioni di passività. Rcs, per capirci, potrebbe vendere “El Mundo” e Recoletos, ricavando 200-250 milioni ottimi per alleggerire l’esposizione bancaria, ma dovrebbe registrare minusvalenze tali da azzerare il proprio patrimonio netto già ora ridotto a 105 milioni. E per carità di patria nulla diciamo dei 130 milioni di attività per imposte anticipate e della probabilità che diano luogo ai risparmi fiscali sugli utili attesi dal management.

 

Sulla carta, Cairo può essere fermato in tre modi: a) comprando in Borsa così da far salire il titolo Rcs e rendere non appetibile lo scambio in tal modo alimentando l’idea che Rcs abbia in Laura Cioli, una dirigente con esperienze inEni, Sky e Carta Sì, l’artefice di un futuro migliore di quello possibile con un editore professionale come Cairo; b) varando un aumento di capitale; c) lanciando una contro Opa.

 

Ora, un certo rialzo delle quotazioni è in atto. Basterà a sconsigliare il mercato dal consegnare le azioni Rcs in cambio di azioni Cairo Communication? Al momento le quantità di titoli Rcs trattate non sono enormi. Vedremo. Chiamare adesso un aumento di capitale, invece, risulta imbarazzante per un consiglio che non voleva nemmeno farsi rinnovare la delega a nuove emissioni azionarie e vi si è rassegnato solo su pressione delle banche creditrici. Questo consiglio dovrebbe tornare in assemblea perché tanto richiede la passivity rule, scattata all’indomani dell’offerta di Cairo: se tuttavia il consiglio riuscisse a far approvare l’aumento in assemblea, sarebbe un bene per la società, meno per i soci che non l’hanno voluto fare fin qui.

 

La contro Opa, infine, difficilmente potrà avvenire attraverso uno scambio azionario. Le imprese multimediali in grado di proporlo non abbondano. Vivendi si è già tirata indietro per ovvie ragioni. Una contro Opa per cassa sarebbe certo più appetibile. Della Valle si è detto compratore. Di Rcs o di Cairo communication? Anche qui, vedremo a breve quanto e che cosa verrà comprato.

 

Il Foglio, poi, mi chiede un commento sull’eventuale intervento di Serge Dassault o Matthieu Pigasse che si dice siano stati invitati da Mediobanca a farsi avanti su Rcs. Confesso una certa incredulità. Dassault è un grande industriale; produce aerei civili e da guerra, i famosi Rafale; possiede Le Figaro, quotidiano conservatore, piccola cosa rispetto al resto. Pigasse è un banchiere della Lazard che, con Xavier Niel, azionista di Telecom Italia, ha messo un po’ di soldi in Le Monde, da sempre un pozzo senza fondo. Davvero Mediobanca chiama un fabbricante d’armi o un banchiere d’oltralpe, uno destrorso e l’altro di simpatie diverse, a stoppare la crescita di un editore puro italiano, slegato dalla politica? Fatico a crederci. Come si collocherebbe un Corriere targato Pigasse-Niel verso Vivendi o verso Enel sul fronte Telecom? E un Corriere targato Dassault verso Finmeccanica o verso palazzo Chigi di fronte alla Libia? Alberto Nagel è troppo attento ai clienti e alla reputazione della ditta per farsi paladino di certi campioni. Non a caso tace.

 

La partita, tuttavia, è in atto. Cairo propone ai soci attuali di condividere il turn around di Rcs. Cioli farà anche bene, ma l’esperienza porta a dire che Cairo può fare di più, meglio e più in fretta, a cominciare dalle economie sugli enti centrali e sulla concessionaria di pubblicità per finire alle sinergie tra stampa e TV alle quali può assicurare un grado di libertà superiore a quello che è nell’interesse degli attuali soci eccellenti. D’altra parte, un settore di confronto già esiste ed è quello dei periodici: negli ultimi 10 anni, il track record della Cairo Communication è stato infinitamente migliore di quello di Rcs e della stessa Mondadori, che oggi può peraltro contare sull’ottimo Ernesto Mauri.

 

L’ultima questione che mi viene posta dal Foglio riguarda la clausola del 51 per cento, se cioè a Cairo andrebbe bene un’adesione alla sua offerta che gli desse una maggioranza ma non assoluta. Naturalmente, solo l’offerente può rispondere in modo definitivo. Ma a occhio direi che la quota accettabile per Cairo sia quella che gli garantisca il potere di nomina del consiglio. Esaurita la passivity rule, questo consiglio o uno nuovo potrà esercitare la delega per l’aumento di capitale emettendo nuove azioni RCS a prezzi unitari bassi, adatti a questa fase dei mass media in Borsa. Cairo ha 100 milioni da mettere sul tavolo. Gli altri soci o concorrono o accettano una forte diluizione. D’altra parte, le banche creditrici hanno già manifestato un sostanziale consenso all’iniziativa di Cairo. Ed è un parere pesante. Chi volesse lanciare una contro Opa per cassa dovrà pertanto impegnare 4-500 milioni, tra acquisto dei titoli e aumento di capitale. Tanta roba, mi pare.

 

Concludendo, faccio io al Foglio e ai suoi lettori una domanda: nel 2016 il Corriere possiede ancora quel quid pluris di influenza politica e finanziaria che, per decenni, ha giustificato il prezzo di Rcs e che ora dovrebbe compensare i gravi rischi impliciti nei conti della casa editrice? Personalmente, sono scettico. E voi?

 

Massimo Mucchetti

 

 

Personalmente, caro Mucchetti, credo che l’operazione Cairo andrà in porto – forse, come lei stesso lascia intendere, con una rivalutazione, verso l’alto, del valore delle azioni. Il punto però che mi sembra più interessante da studiare e anche approfondire rispetto al Corriere del futuro riguarda una sfida che accenniamo qui brevemente ma sulla quale ritorneremo (anche con lei se vuole). Lo avrà notato anche: il sistema mediatico in Italia si sta semplificando. I maggiori gruppi editoriali sono divisi ormai in tre grandi famiglie. C’è la famiglia più in sintonia con la sinistra di governo (Repubblica, Stampa, Elkan, CDB). C’è la famiglia più in sintonia con l’opposizione non antagonista che prova a immaginare un’alternativa concreta alla sinistra di governo (Mediaset, Mondadori, Vivendi, Telecom, il Giornale).

 

Resta una terza famiglia che è quella legata alla tradizione del terzismo e di cui fa parte anche il Corriere della Sera. Un tempo il gioco era facile: il terzismo si identificava con una borghesia che si faceva portavoce di un terzo polo, di un grande centro moderato, intorno al quale costruire le fondamenta del futuro del paese. Quello schema però, oggi, non funziona più. Non solo perché quella classe dirigente ha perso di peso e di consistenza ma anche perché la vecchia classe dirigente che sostiene nuove operazioni terziste si trova nel seguente paradosso, che poi è anche il paradosso del futuro del Corriere: ma se oggi il vero Terzo polo è il Movimento 5 stelle, un giornale che ambisce a parlare alla borghesia, da posizioni terziste, non corre il rischio di essere risucchiato nel vortice nero dell’anti politica quotidiana? La sfida del Corriere di oggi e di domani, è anche questa. Scegliere da che parte stare. Sapendo che questa volta stare in mezzo tra i due grandi poli non è una scelta terzista ma è una scelta di campo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.