Che fa un milanese tipo se gli annacquano il vino? Protesta, si indigna. Oppure chiama la Asl. Il romano invece abbozza. Anzi, canta felice: tu mi freghi? Ma che m’importa, io ti frego di più

Coratella de 'sta città

Redazione

Un gran frontale a teatro tra un padano assalito dalla romanità e un romano annoiato dai luoghi comuni. Oggetto: se Roma sia una città di merda oppure no. “Se uno ti viene addosso in macchina, e ha torto, non fai neanche in tempo a parlare che t’aggredisce: a stronzo!”.

Pubblichiamo, per gentile concessione degli autori, l’estratto di un dialogo teatrale sulla Capitale (“Roma contro Roma”) scritto dai giornalisti Alessandro Trocino e Stefano Ciavatta.


  

La Cucina di Roma


 

Trocino: Eccoli i romani, eccovi. Sempre pronti a banchettare sopra un cadavere, a brindare sopra una bara. Che cos’è in fondo Roma? Roma è questo, una città morta, con abitanti morti che fanno festa e s’attovagliano sopra un enorme cimitero. Ste come stai? Sei vivo o morto? Hai già magnato? Tutt’a posto? Che te sei fatto, n’abbacchio, ‘na puntarella. Ahhh… La porchetta… La sugna… quant’è brutta sta parola? sugna.. mah. Oh, la porchetta…  da quando sono a Roma mi fanno una testa tanta con questa porchetta. T’aggiri per le strade e ogni tanto vedi queste porchettone gigantesche, orizzontali, abbrustolite, con l’occhio ancora vivo che ti guarda… e ci sono sti cartelli, porchetta d’ariccia, porchetta de lì castelli… Poi un giorno sono andato ad Ariccia e mi son fatto un giro. Anche qui, centinaia di cartelli trionfali, porchette di Ariccia! Ma erano tutte morte e mi son chiesto: ma la porchetta in fondo è un maiale e i maiali vivi dove sono? Niente, non ne ho trovato neanche uno, ho chiesto anche in giro a qualcuno e i maiali, quali maiali? Ma che sta’ a di’? E allora siccome sono una personcina curiosa, ho fatto i miei studi e scoperto da dove arrivano le porchette di Ariccia. Dalla Spagna arrivano. Nei furgoncini, dentro i Bartolini. I maialini già belli congelati, pronti per essere cotti e spacciati nelle fraschette. La porchetta d’Ariccia è la porchetta di Malaga. Eh lo so, son brutte sorprese. Per riprendervi voi romani che fate? Magnate. Eh… a questo punto  ci vorrebbe un bel carciofo, di quelli fritti “a spicchi, infarinati e intinti d’ovo”. O alla giudia, “leggero, scrocchiarello, delicato”. Ma tutti sti carciofi da dove arrivano? Allora, siccome sono una personcina curiosa, l’altro giorno sono andato a Testaccio, in quel mattatoio moderno che chiamano mercato e ho chiesto al mio carciofaro di fiducia: a Romolè, scusa, ma da dove arrivano sti carciofi? Lui ha scosso la testa e ha mormorato una cosa, daaabretagna.

 

Da?!? Daaabretagna. Ecco qui, dunque sti carciofi che ti commuovono tanto, arrivano dalla Bretagna. Vogliamo parlare della carbonara? Questa gloria locale, raffinatissima ricetta millenaria, vanto degli osti romani… dice che è stata inventata nell’800 dai carbonari dell’Appennino che facevano il carbone con la legna e si portavano dietro uova e pecorino.

 

Tutte cazzate. Basta leggere la bibbia della cucina romana, il libro di Ada Boni, datato 1930. Che cosa dice della carbonara? Niente, non dice niente. Perché non c’è la carbonara. E sapete perché? Perché la carbonara l’hanno portata gli americani, durante la guerra. E non c’era il guanciale, quel guanciale che se oggi non lo metti ti tolgono l’amicizia. Ma quale guanciale ci mettevano il bacon nella carbonara. La ricetta originale della carbonara prevede il bacon. Fatevene una ragione. Il bacon e le uova in polvere, liofilizzate, altro che le uova di Parisi. La razione K. La vostra amata carbonara è la razione K. Non vi rimane che la pajata… Che poi lo sapete che cos’è vero la pajata, ve l’ha detto Alberto Sordi nel Marchese del Grillo: è merda… intestino, quel che c’è nelle budella dei vitelli da latte… merda. Voi vi mangiate merda. Qualche settimana fa è arrivata questa notizia straordinaria: la Ue dopo 14 anni di bando si è arresa alla poesia del quinto quarto e l’ha riabilitato. Sulle lavagne delle osteria sono apparse scritte trionfanti: torna la pajata! Liberi! Ora, quando è arrivata la notizia, io son rimasto un po’ perplesso. Ma scusate… ma quando mai era sparita la pajata da Roma? Bastava andare da Checco er Carrettiere a Sora Margherita, dove andate voi, da Marcello a San Lorenzo: era regolarmente in menu, da 14 anni. Ma c’è di più: ve lo ricordate il patto della pajata? E’ di cinque anni fa. Succede che Umberto Bossi aveva tradotto a modo suo Spqr: Sono Porci questi Romani. I romani si indignano, l’indignazione dura un attimo perché finisce a tarallucci e pajata. E allora per fare la pace con gli allora alleati di governo, si celebra questo rito davanti al Parlamento: viene cucinata in un pentolone un’enorme pajata e Bossi la trangugia, imboccato da Alemanno e Polverini. Scena orripilante. Ma il punto è un altro. Il punto è che il sindaco di Roma e il presidente della regione Lazio, i due massimi rappresentanti istituzionali locali, danno da mangiare a Bossi un piatto proibito da anni dall’Europa. Il tutto davanti al simbolo della legge, il Parlamento. Ma perché è così. Per voi romani le regole non contano.

 

Perché voi romani siete dei cialtroni, dei truffatori, dei cazzari. Vivete di rendita, sulle rovine della storia, spacciate ricette false e senza ricevuta, perché c’è il preconto… Propagandate l’ultima cena di Pasolini da Pommidoro, ma neanche quella è vera… Sono due, da Pommidoro, con Ninetto Davoli, poi da Biondo Tevere, con Pino Pelosi. Anche l’ultima cena è una patacca, Pasolini va e non mangia e fa bene perché il Biondo Tevere fa schifo, chiazze d’olio combustibile dentro un oceano inquinato di falsa tradizione, rigatoni precotti serviti su una tovaglia a quadrettoni macchiata di sugo, da camerieri maleducati e sprezzanti, come piace a voi. E allora, dopo l’antipasto, per cominciare questo match, Ste, ti voglio citare uno che Roma la conosceva bene. Giovanni Papini: “Chi mi darà torto se io dichiaro che Roma è sempre stata, intellettualmente parlando, una mantenuta. Questa città ch’è tutto passato, nelle sue rovine, nelle sue piazze, nelle sue chiese; questa città brigantesca e saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la sifilide dell’archeologia cronica, è il simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova, originale”. Ste, è inutile che ci raccontate stronzate: la romanità non esiste, è un’invenzione. Siete tutti dei pataccari, illusionisti da quattro soldi, venditori di fumo. Siete il pubblico perfetto per il Mago Guarda, vi sbellicate dalle risate quando il Mago si infila la spada in gola, perché lo sapete che è una cazzata ma vi riconoscete in lui, nella sua impostura e urlate “noooo, mago, non lo fare” e poi fate un inchino, vi togliete il parrucchino e vi godete lo spettacolo, con la panza piena.

 

Ciavatta: Io non ricordo il giorno in cui sono arrivato a Roma per il semplice fatto che a Roma ci sono nato. Ma questo non vuol dire nulla perché a Roma i romani di settima generazione ormai non esistono più, sono rimasti solo mio nonno – che sta sepolto al cimitero – e gli ebrei del ghetto, la Roma giudia. Però quando sono arrivato io il libro di Ada Boni c’era già, come la foto di Pertini a scuola, solo che quel Talismano non lo ha letto mai nessuno, mentre il Pertini di Andrea Pazienza quello sì. Tu citi la Boni perché hai bisogno di ricette ma a un romano l’aneddoto, la citazione restano addosso due secondi. qui non siamo nei giardinetti curatissimi della provincia padana, qui siamo nella giungla e nella giungla vale la dritta non la regola. Non ho mai mangiato una carbonara uguale all’altra però me le ricordo tutte, perché erano tutte un pretesto per essere già altrove. Tu dici che Roma è una patacca ma niente qui è originale. Pure i cornettari sono a rischio. Sulla Prenestina i cornetti li fanno i cinesi, al maritozzaro di Porta Portese è rimasta solo la ricetta, resiste soltanto il Cornettone a via Oderisi da Gubbio, resiste come il villaggio di Asterix. Indignarsi è inutile, l’autenticità è una pretesa di cui facciamo a meno, la questione è un’altra, è che di giorno e di notte a Roma CMQ si rimangia: per ripulirsi, per sfondarsi, per piallare il palato. Un ciclo continuo che non conosce originalità e neanche puntualità, ma solo stomaco. Da Roma non ti devi mai aspettare l’ora esatta – una volta ci volevo fare una paginata con le foto di ogni orologio rotto del centro storico, un po’ era una scusa per titolare “Alemanno è ora che te ne vai”, un po’ era la citazione del Belli che dice che la morte sta nascosta negli orologi. Il tempo a Roma è solo una convenzione, come quella di Ginevra, siamo tutti prigionieri, siamo fregati alla nascita. Ora se vogliamo fare della filologia ti dico che la cucina romana è di mercato non di frigorifero, si compra alla giornata e il domani è ripassato in padella, il grano ai Castelli non c’è mai stato, è sempre arrivato da lontano, alla fine abbiamo assimilato pure la razione kappa ma siamo tutti d’accordo che è meglio il guanciale. Però siamo ancora fuori strada perché è lo stomaco di Roma che conta, non gli ingredienti, e non diventi romano se non hai lo stomaco largo. Roma è immensa, a Roma si fa voto di vastità. Pure la morte è monumentale a Roma, il cimitero del Verano è grande come un paese perché a Roma la morte è di casa, si va a trovarla come un parente, una volta dissi con entusiasmo “vado da mio nonno vuoi venire?”. E un amico salì in macchina tutto curioso, si accorse della destinazione solo a metà strada, e c’è rimasto male, si sentiva fregato come te col guanciale. Si era scordato che Roma è un enorme stomaco da cui si entra e si esce in continuazione. Per capire se uno sta in salute si chiede sempre “hai cacato?”, Fellini impazziva quando sentiva sta roba. Eccola la tua pajata. Se quella di Pasolini fosse stata una notte di sesso, stai sicuro che avrebbe cenato anche una terza volta. Invece quella notte nello stomaco di Roma c’è entrato qualcos’altro. Lo stomaco. Esibire il fascino o la delusione di Roma dopo essersi affacciati per la prima volta sullo stomaco della capitale è un gioco da provinciali, c’è cascato anche Pasolini. Tu mi citi Papini, un uomo nato due secoli fa a Firenze. Anche lui pensava di conoscere Roma ma c’è sempre un Labaro grande come la Milano delle mura spagnole che ti scappa. A Roma la coperta delle annotazioni è corta, ci foderi a malapena un cuscino. Il ventre romano arriva in territori ancestrali, puoi infrattarti sull’Appia antica fare l’amore in macchina con i finestrini abbassati e a un certo punto avvertire un senso di panico che viene da fuori. Puoi scendere le scale di San Clemente al Celio per fuggire il sole d’agosto e ritrovarti davanti al corridoio buio del culto di Mitra, là dentro c’è il tempo che non tornerà mai più, però fa parte di Roma e vedrai che diventeremo tempo perso anche noi. Per questo nessuno qui ha la ricetta granitica che resiste al tempo. A volte fai il rabdomante, a volte peschi a strascico, a volte sei Flaiano, a volte sei un cojone.


 

Alessandro Trocino: E’ vero: una romanità autentica esiste. Ed è la zavorra di Roma. Voi romani per poter fare qualcosa di buono, di nuovo, dovreste distruggere tutti i monumenti. Radere al suolo templi, conventi, sotterranei, cupole, colonne, obelischi, pievi, fontane. Dovreste prendere le mazze e abbattere tutto. Ma non lo fate, perché come diceva Joyce, Roma “è come un uomo che si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna”. E forse non basterebbe, distruggere tutto, perché la rovina è dentro di voi, la rovina siete voi. A Roma ci si fiuta come animali. E come animali ci si fa la guerra. Vince chi colpisce per primo, in strada, sul lavoro, nei rapporti umani. La guerra è uno stato d’animo, una condizione esistenziale, un umore, un destino. Non importa che si abbia torto o ragione, non importa la gravità del fatto, conta colpire per primi, darti un cazzotto a freddo, mentre stai ancora ragionando. Se uno ti viene addosso in macchina, e ha torto, non fai neanche in tempo a parlare che t’aggredisce: “A stronzo! Ma che cazzo fai?!?”. Tu sei lì immobile, che non capisci bene cosa sta succedendo. Ma come, mi vieni addosso e mi dici stronzo? Che quello se n’è già andato tirandoti dietro una scia di insulti terribili. Talvolta pure divertenti, comunque spiazzanti. Un tizio, una volta, ha imboccato via Panisperna contromano. Io trasecolo, lo guardo con l’occhio a palla, indeciso se scappare o preparare un discorsetto sull’importanza della segnaletica, quando ecco che quello si ferma, abbassa il finestrino e mi urla, con la mano piatta, il palmo proteso: “A genio! Che te sei dimenticato a lampada a casa?”.E che glie devi dì a uno così? Niente. O meglio tutto, perché se sei a Roma è sempre guerra. Con “le mano”, o con le parole. La mano po’ esse piuma o po’ esse fero. E se è piuma, ti fotte uguale. Perché se non hai la battuta pronta, a Roma sei un uomo morto. Te lo insegnano già da piccoli. Il bambino romano tipo è un essere cazzuto già a cinque anni, che ha imparato a difendersi da subito, altro che il fighetta milanese. Il bambino romano a cinque anni ti parte di capoccia, ti gonfia in un attimo, te fiocina er culo. Oppure, se è di buona famiglia, ti gela con una freddura volgare, minacciosa, perché ha già imparato a difendersi, a sopravvivere. Il bambino romano diventerà meccanico, assessore, notaio, spacciatore, ma non cambierà molto, resterà quello di una volta: il fango nella bocca, la schiuma della rabbia nel cervello, l’istinto a colpire per primo. La guerra è nelle budella di questa città. Qui siamo a Caracas, a Calcutta, a Guatemala City. Io so’ trasteverina, canta Gabriella Ferri, e lo sapete, nun serve bello mio che ce rugate, so’ cortellate quante ne volete. La società dei magnaccioni racconta l’altra faccia della violenza, la guerra di parole e di gesti, il vortice di bugie compiaciute: racconta di un cliente che va a bere vino in un’osteria e l’oste gli allunga il vino con l’acqua. Che fa un milanese tipo se gli annacquano il vino? Protesta, si indigna. Uè fa minga il furbo, testina… Oppure chiama la Asl, il nucleo antisofisticazioni… Il romano invece abbozza. Anzi, canta felice: ma che ce frega ma che ce importa se l’oste ar vino ci ha messo l’acqua noi je dimo e noi je famo c’hai messo l’acqua nun te pagamo”. Tu mi freghi? Ma che m’importa, io ti frego di più.

 

Roma è questo, una battaglia per la sopravvivenza, piena di colpi bassi, proibiti. Roma è la lupa che allatta i gemelli famelici e instilla la morte dentro di loro, è il fratellicidio, è il rito quotidiano ed eterno della guera. E’ tragedia e farsa. “O Roma o morte”, gridava la retorica ufficiale di Garibaldi. “O Roma o Orte” gli rispondeva Mino Maccari.

 

Stefano Ciavatta: Roma, Orte… Affrontiamo il dramma. Un tizio ti è arrivato contromano ed è subito guerra, anzi è subito Roma in blocco. Quel tizio ai tuoi occhi rappresenta Roma. Addirittura ti sei fermato, volevi scendere dalla macchina e dare la risposta perfetta. Ma qui nessuno si aspetta una risposta tantomeno la perfezione. Fai come Walter Chiari che passa una settimana a trovare la risposta a morto di sonno e il romano una settimana dopo lo anticipa di nuovo a morto de fame. Tu pensi di avvicinarti a Roma accumulando aneddoti ma l’aneddotica attorno a una cosa non è la cosa stessa. Se fai così Roma ti resterà sempre a tre palmi dal culo come i cartelli dell’Auditorium che stanno ovunque ma sono inutili perché sempre troppo distanti. Lo conosci il buco di Roma? E’ la toppa del cancello dei Cavalieri di Malta sull’Aventino. Ci infili l’occhio e vedi San Pietro in prospettiva sullo sfondo in mezzo a due filari. Dura pochi secondi poi devi scansarti perché ci sono i turisti in fila. Quella che vedi è una finta scorciatoia, è l’illusione di una città in miniatura una Roma che qui non ci sarà mai. Non te la cavi così a Roma, non ci passi per quel buco. Anche un mio lontano zio ha guardato dentro quel buco ma non trovò sollievo. Scappò via con una ballerina, lasciando la famiglia con le pezze. E infatti in quel buco non ci passa il marasma dei magoni e dei fomenti, non ci passa nemmeno lo sbrago ovvero la sensazione di non riuscire a trattenere nulla, quel senso immanente di Roma per cui se hai un sentimento subito ti srotola il tappeto delle emozioni. Però intorno a quel buco settecentesco Roma è cresciuta. La Roma che viviamo è quella enorme, smisurata dei palazzinari. E noi siamo cresciuti col Tuttocittà non con le cartoline. Roma è diventata toponomastica implosa che ti porti appresso, tornare a casa vuol dire scansare l’altra metà della città che chissà dove schizza via. Sei romano se hai un angolo da girare, altrimenti sei un parigino. Prendi me per esempio. Sono nato e cresciuto nella Balduina del Sorpasso, ora vivo al Trullo nell’ex borgata Ciano. Mio padre è nato a Fontanella Borghese poi ha vissuto a Monteverde e poi all’Eur a Decima. Mia madre è nata a via Gattamelata a Prenestino e poi è andata ad abitare in via Kossuth a Portuense. La famiglia del sangue è sparsa tra piazza Euclide, Corso Francia, via del Serafico, lo Zio d’America a Talenti, Colli Albani e Botteghe Oscure. I miei più cari amici stanno a Labaro, Tor Tre Teste, Spinaceto, Prati Fiscali, Monte Mario, alla Caffarella, alla Salita del Grillo. Ho condiviso case a Cortina d’Ampezzo, a via Merulana, qui al Pigneto, sono stato innamorato alla Garbatella, a Torrevecchia, Marconi, Boccea, Furio Camillo. E non ti sto a dire la bohème, i vizi, le perdite di tempo. Questa è la mia città anche se la mappa ufficiale del Comune di Roma comprende solo il 10 per cento di tutto questo. L’ho costruita piano piano, ripassandoci sopra mille volte come Pac Man. Con la Roma che conosco io potrei farci 10 guide di Pavia. Dammi Palermo o Firenze e ci facciamo subito un quartiere. Roma va presa e mollata in continuazione. Siamo tutti reduci di questa città, il tempo di una battuta e siamo già altrove. Tu invece abbocchi a una Roma presa tutta d’un fiato, invece Roma va capata come i vestiti a Porta Portese. Quale vuoi? Vuoi il dolce borgo, una semi-Milano, un mezza Torino una super-Palermo, una succursale del Cairo, un gemellaggio con Bucarest? Devi essere pronto a maneggiarle tutte. Quale sarà la roma giusta? Devi toccare. Te lo dice la bocca della verità che è un chiusino di fogna appeso al muro e tu per sapere la tua verità ci devi mettere la mano. Te lo dice pure l’avventura col travestito di Franco Califano, nel dubbio tra maschi e signore chi vuol la verità deve toccare (e scansare).

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