Al poco vivace Festival di Berlino si fa un'ora di fila per "50 sfumature"

Mariarosa Mancuso

Un’ora di fila per “Cinquanta sfumature di grigio” (lo si sarebbe potuto vedere nelle sale 24 ore dopo) fa da perfetto contrappasso a una Berlinale poco vivace, tra Autori ben stagionati e registe che rivendicano il loro sguardo, interessante a prescindere. Non è stato tempo perso.

Un’ora di fila per “Cinquanta sfumature di grigio” (lo si sarebbe potuto vedere nelle sale 24 ore dopo) fa da perfetto contrappasso a una Berlinale poco vivace, tra Autori ben stagionati e registe che rivendicano il loro sguardo, interessante a prescindere. Non è stato tempo perso: l’abbiamo trascorsa leggendo un’intervista a Sam Taylor-Johnson, un passato da artista britannica e un futuro a Hollywood, se la tenutaria delle sfumature lo concederà. Nei paragrafi più gustosi, i provini alle attrici – portavano all’esame un monologo di Bergman, propedeutico a  qualsiasi sofferenza cinematografica – e le dispute tra la regista e la romanziera, lo schiocco delle scudisciate si sentiva in lontananza. Lì abbiamo deciso mettere a pizzo i novanta dollari necessari per l’irresistibile orsacchiotto di pezza modello Christian Grey: completo, cravatta, mascherina e manette.

 

Un paio di film soltanto prevedevano lo spettatore, almeno come ipotesi. Non soltanto una schiera di critici che da una parte lamentano lo stato del cinema, e poi fanno quel che possono per peggiorarlo. Prendiamo “Vergine giurata” di Laura Bispuri, starring Alba Rorhwacher che per metà parla in albanese e gira vestita da uomo tra le caprette e le montagne innevate, dopo aver detto di no a un matrimonio combinato, e quando arriva in Italia va in piscina a guardare gli allenamenti di nuoto sincronizzato. Ci si chiede quale potrebbe essere lo spettatore modello: neanche il più astuto profiler dell’Fbi, specializzato in casi estremi, riuscirebbe a trovarne uno. Va registrato, intanto, che il nuoto sincronizzato è l’unico sport conosciuto dai registi italiani da esportazione, ce n’è una dose sostanziosa anche in “Cloro” di Lamberto Sanfelice (sempre alla Berlinale, sezione Generation 14 plus).

 

Un po’ di vita e un po’ di brividi sono arrivati con “Victoria” di Sebastian Schipper. Un “tutto in una notte”, messo in scena con un impressionante piano sequenza di oltre due ore, alle calcagna di una ragazza spagnola a Berlino. Prima in discoteca, dove viene rimorchiata da un giovanotto e dalle cattive compagnie del medesimo. Si troverà a far da autista durante una rapina (bisogna restituire un favore, lei non si tira indietro neanche quando potrebbe). Strade, tetti, sotterranei, banche, la libertà di movimento che solo la telecamera digitale – e molte prove con gli attori – consentono.

 

[**Video_box_2**]Più classico il rumeno “Aferim!” – più o meno “ottimo lavoro!” – ambientato nella Valacchia dell’Ottocento, e pure in bianco e nero. Un capitano e suo figlio inseguono uno zingaro, reo di essersi portato a letto la moglie del padrone, o almeno così sembra. Parlano, e incontrano gente: nulla di particolarmente originale, neppure gli insulti a tutti i popoli conosciuti. Si capisce però che il regista e sceneggiatore Radu Jude almeno la domanda se l’è posta: come faccio a tener sveglio lo spettatore e a non fargli maledire i soldi spesi per il biglietto? Non si può dire lo stesso di Terrence Malick, che in “Knight of Cups” cerca il senso della vita nelle carte dei tarocchi.

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