Ecco l'agenda di Renzi per sfruttare al meglio il bazooka di Draghi

Renzo Rosati

L’espansione monetaria è una finestra unica per spingere su privatizzazioni e Pa. Pure Merkel benedice il Jobs Act.

“Ora mettiamo il turbo”. Più che ad Angela Merkel la promessa fatta da Matteo Renzi sotto il David di Michelangelo (l’originale dell’Accademia, non la copia di piazza della Signoria né dell’omonimo piazzale: insomma quanto per un fiorentino c’è di più solenne) è rivolta a se stesso. Ora che il bazooka di Mario Draghi ha sparato, il premier sa benissimo che va spianata un’altra arma d’assalto: la sua.

 

I motivi sono evidenti. Il primo, per citare il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è la “finestra straordinaria che si è aperta per l’Italia”. Finestra che il ministro dell’Economia vede nel combinato disposto “della decisa azione di politica monetaria, del deprezzamento dell’euro, nel dimezzamento del prezzo del greggio. Il tutto, assieme all’aggiustamento dei conti pubblici, porterà a una caduta del debito da qui al 2016”. Facciamo una prima pausa per far discendere dalle parole di Padoan il primo bersaglio del bazooka renziano. Il debito pubblico è stimato quest’anno al picco del 133,8 per cento del pil, per poi discendere. Potrebbe accadere prima. Il Quantitative easing della Bce, se ridurrà lo spread intorno ai 100 punti e soprattutto se manterrà ai minimi storici i tassi dei titoli pubblici, come oggi, farà risparmiare circa sei miliardi d’interessi sui 300 miliardi di buoni in scadenza. Quanto al greggio, un calo a 60 dollari a barile – siamo poco sotto i 50 – era stato quantificato in benefici per mezzo punto di pil, otto miliardi; mentre il deprezzamento dell’euro sul dollaro nel rapporto di 1,15 – siamo a 1,12, i minimi da undici anni – dovrebbe portare 10 miliardi di maggiore export. Ma c’è anche chi intravvede un allineamento tra valuta comune e biglietto verde. In totale, e finora, si tratta comunque di 24 miliardi in più per l’economia italiana: un punto e mezzo di pil. Non tutto finirà nella contabilità pubblica; sicuramente però ci andranno i risparmi in asta su Btp e Bot, e gli introiti fiscali delle maggiori esportazioni e dall’aumento della produzione. Il che intanto rottamerà qualsiasi ipotesi, di quelle che piacciono ai gufi, di operazioni straordinarie sul debito di vaga somiglianza greca: patrimoniali, ristrutturazioni, allungamento delle scadenze. Ancora meglio se questo verrà comunicato ufficialmente alle imprese, alle famiglie, agli investitori: una sorta di “patto nazionale della fiducia” anche per far riscoccare la scintilla dei consumi. Al premier non manca la fantasia in proposito. Ma per non perdere il passo, Renzi dovrà poi puntare il bazooka sulle privatizzazioni, il cui calendario di importo pari allo 0,7 per cento di pil l’anno (otto miliardi) è slittato dal 2014 al 2015: ora si parte davvero – non più con partite di giro tra Tesoro e Cassa depositi e prestiti – e il livello più appetibile dell’euro potrà far muovere sull’Italia i capitali esteri.

 

Capitali esteri, americani e cinesi, arriveranno come è stato promesso a Davos da banchieri pubblici e privati, i quali certo non erano lì per beneficenza. Mentre Angela Merkel, a Firenze, ha rivelato che gli imprenditori tedeschi le hanno così spiegato il Jobs Act: “Mi dicono che non hanno più paura di assumere da voi, e torneranno a investire. Una grande riforma”. Informare gentilmente Susanna Camusso, segretario generale della Cgil.

 

Dirette conseguenze di quanto sopra sono i successivi bersagli renziani: la liberalizzazione e privatizzazione delle aziende pubbliche locali, e un Jobs Act non più dilazionabile per la Pubblica amministrazione. Anche in questo caso non c’è da ricorrere all’ottativo, ma all’indicativo: le riforme sono infatti già abbondantemente in calendario. Le ottomila municipalizzate – ha promesso Renzi a fine anno – verranno ridotte a mille; il sottosegretario Graziano Delrio conferma che si deve solo scegliere lo strumento giusto: la stessa riforma della Pubblica amministrazione, in mano al ministro Marianna Madia (si entrerà nel vivo appena approvate legge elettorale e istituzionale), oppure un altro veicolo, come si è fatto a sorpresa per la riforma delle banche popolari con l’Investment compact. Gli 80 euro e il Jobs Act hanno abbondantemente confortato Renzi, e smentito scettici e avversari, sul fatto che osare non solo si può, ma si deve. Ora è il momento di altri effetti speciali: serve il turbo, o, per dirla con il poliglotta Pier Carlo Padoan, il “boost”.

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