“Stanca dopo la lunga corsa, mi corico sull’erba soffice. Chiudo gli occhi”: illustrazione di Pierre Mornet da “Il compleanno”, pubblicato in Italia da Gallucci

Mamma, non mamma

Umberto Silva

Bambole, gatti, bambini. Sogni e incubi di una donna che per avere un figlio si affida a un’altra donna e al suo utero in affitto.

Sotto il pigiama di notte infilo il cuscino, e lo accarezzo; mimo quello che un’altra sta facendo. Il mio nome è Ginevra ma non è quello vero, come forse vera non è la mia vita. O forse lo è per la prima volta, chissà. Da bambina giocavo con le bambole, volevo portarle a scuola e mamma faticava a togliermele dalle mani. In quei momenti la odiavo; disprezzava le mie creature, non mi fidavo della sua promessa di coccolarle, sapevo che aveva altro da fare. Avrebbe dedicato il suo tempo a Tristano, il gatto siamese con il quale passava lunghi momenti. A scuola pensavo a lei che lo teneva tra le braccia e gli parlava all’orecchio, allora graffiavo il banco con la penna. Odiavo il siamese, anche lui mi scrutava con occhi perfidi. Ora che tanti anni sono passati non mi sono del tutto rappacificata con i gatti.

 

Mi sposai a ventisei anni con l’uomo che amavo e che avevo conosciuto a casa di Cristina, la mia migliore amica. Anche lei amava Carlo, in silenzio. Un silenzio che m’irritava. Quella sera Carlo guardò prima me, poi guardò lei, ma già l’avevo preso a braccetto e trascinato in giardino. Per quattro anni finsi di non interessarmi ai figli. Disegnavo, viaggiavo, mi dicevo che stavo godendo la mia giovinezza, aggiungevo che stavo diventando matura, concludevo che c’era tempo, tutto il tempo, e con mano autorevole il tempo avrebbe creato le cose. Il giorno che festeggiammo i miei trent’anni un attacco d’ansia mi squilibrò tutta. La testa girava, avevamo invitato molti amici e barcollavo tra uno e l’altro senza trovare un appoggio; nessuno si accorgeva di quanto stessi male, lo sconquasso era dentro di me. Cercavo mio marito ma non lo trovavo, mi abbandonai su un divano e chiusi gli occhi. Li riaprii e Carlo mi stava sopra, sorridente. ‘Hai sognato?’. ‘Sì’, sospirai, ‘un bambino’. Il suo sguardo era dolcissimo: ‘Fai conto che sia qui con noi e sta giocando col gatto’, mormorò al mio orecchio.

 

Partimmo per un lungo viaggio in Giamaica, pensavamo fosse il luogo perfetto per concepire, ma non sono tornata con un figlio in grembo. E sì che mi ero comprata un premaman tutto fiori rossi, gialli e neri, e ballavamo sulla spiaggia al suono del reggae. Eravamo così presi uno dall’altra che pareva dovesse andare da sé che ci fondessimo in una terza creatura, cullati dalla musica e dalle stelle. Scherzammo sulla nostra fretta, ma un paio d’anni dopo eravamo molto seri. A trentaquattro anni i ginecologi erano di casa, e anche lo psicanalista. Le mie notti stavano diventando tormentose. Sognavo gatti che mi rubavano il figlio e lo nascondevano da qualche parte, oppure lo divoravano per poi presentarsi in salotto con aria tronfia e impunita. A trentasei anni il figlio non dava segno di sé e fare l’amore con mio marito era diventato un incubo. Non vedevo il suo volto, non sentivo il suo pene entrare in me, non sentivo niente; o meglio, sentivo il mio niente, un corpo che non era più nulla, un pensiero che solo a questo pensava. A trentasette anni mi chiesi perché Dio insistesse a offrire figli a donne che non li volevano invece di venire incontro a me, regalandomene uno, almeno uno, che avrei amato sopra ogni cosa. Ma anche due, tre, infiniti: ero pronta ad amare tutti i bambini del mondo, anche se quelli che vedevo per strada cominciavano a suscitarmi sentimenti oscuri. Mi tiravo uno schiaffo e chiedevo perdono a Dio, pensando che mi avrebbe punito per questa mia crudeltà. Più i giorni passavano più pensavo che sì, Dio mi stava punendo, sicché io punii Lui per la sua crudele beffa. Dicevo a mio marito che andavo a messa a pregare, e la mattina di ogni domenica sgattaiolavo nella mansarda di un giovane pittore. Punii mio marito che conosceva il mio dolore e faceva di tutto per sopirlo, ma era troppo poco. Avrebbe dovuto scalare il cielo, prendere per il collo il Padreterno e costringerlo a darmi il mio bambino. Il pittore era ben fatto contrariamente ai suoi quadri che mi facevano ribrezzo; gli piantavo le unghie nel petto, gli mordevo la gola, lo imploravo con parole insensate, ululavo. Una gatta, una cagna, una che mette al mondo tanti piccoli. Quando capii che neppure lui poteva darmi un figlio lo disprezzai. Mi ero sporcata per niente. Quando gli confessai di non avere mai preso la pillola mi fissò in silenzio, come chi pondera i pro e i contro. Cercai il suo gatto per prenderlo a calci, ma lui lo stringeva tra le braccia, tenendomi d’occhio.

 

Avevo rinunciato all’idea di una maternità per dedicarmi al giardinaggio. Tra i fiori e le siepi mi rassereno, avrei dovuto sposare un ciclamino, sarei stata felice. Sei mesi fa ho affittato l’utero di una giovane donna. Sono una persona cattiva? Detto così suona stonato, ho una sensibilità e, credo, una mia etica. Avrei potuto adottare un bambino ma non l’ho fatto; mi è sembrato triste privarlo dei suoi genitori, dei suoi amici, della sua terra, per portarlo in questo Paese balordo. Ho preferito finanziare Save the Children. I bambini degli altri ora mi fanno una tenerezza infinita e accarezzo i loro gattini. In fondo hanno bellissimi occhi, sapienti e misteriosi, sanno qualcosa che non so o che fingo di non sapere. Quando avrò un figlio gli regalerò un aristocratico birmano o il mio preferito, il norvegese delle foreste, che correrà per il parco. Nel frattempo mi sono convinta che Dio aveva ragione a punirmi: ero cattiva, non avevo superato la prova, mi ero arrabbiata con Lui, gettata la fede al vento lo avevo insultato e non meritavo niente. L’avevo pregato tanto, è vero, ma avevo anche smesso, e se si smette di pregare Dio il figlio muore.

 

Sono cambiata dal giorno in cui mi sono trovata davanti a lei, la donna che avrebbe partorito mio figlio. Mi è parsa inadeguata. Ho guardato mio marito che invece sembrava soddisfatto, ho cominciato a camminare nella stanza, volevo fuggire; tutti aspettavano che mi calmassi, tranquilli come chi sa che sarebbe andata così. La ragazza era un fuscello e nella mia immaginazione il figlio, enorme, cresceva senza sosta schiacciando ai bordi del paradiso familiare il Padre, la Madre e lo Spirito Santo. Esaminandole i seni, i fianchi, il ventre, tutto appariva perfettamente a posto, eppure mi sembrava impossibile che costei per nove mesi riuscisse a tenere in sé, a nutrire e a far crescere lo smisurato figliolo. Un gigante che quella ragazzina mai avrebbe potuto mettere al mondo; casomai era lui che l’avrebbe tenuta nel palmo di una mano. Mio figlio era diventato grande quanto il mondo, il mio mondo; tutto il resto era scomparso e io parlavo con lui, lo vedevo sui muri di quella stanza, nella penombra, e piangevo. Nessun figlio è riuscito a far piangere tanto la propria madre, nemmeno gli assassini o i moribondi; piangevo al punto che presi a maledirlo per avermi rifiutato, io che tutto a lui sacrificavo; lui mi ricompensava ghignando in chissà quale limbo, satollo. Se davvero avesse desiderato la sua mamma avrebbe lasciato amichetti e giochini è sarebbe fuggito da lì, viaggiando per le stelle, attraversando di slancio i buchi neri. Ma forse i demoni lo trattenevano in schiavitù, o lo viziavano facendogli intravedere gloriosi futuri altrove, solo che avesse atteso. Terre e madri più degne lo attendevano, non si precipitasse su quella balorda architetta di giardini.

 

La ragazza mi guardava quieta. Carina, sì, una ragazzina con una grande sciarpa attorno al collo e un vestitino a fiori. Quando aprì bocca e mi disse: ‘Buongiorno signora’, mi ricordò la voce di una cameriera di quando ero piccina, una donna che sapeva il fatto suo, che riusciva a sistemare sempre tutto, sicché persino mio padre la rispettava. Abbracciandola, alla giovinetta consegnai mio figlio, per nove mesi. Sei ne sono trascorsi. Il verbo ‘volere’ suona brutto nei nostri tempi evoluti, pare stonato parlare di figlio ‘mio’, come fosse una proprietà; d’altro canto sono sicura che a molti genitori può apparire sconveniente che io abbia introdotto nella mia intimità coniugale un’altra donna. Che tratto come una sorella, e spio giorno e notte come un’assassina, una donna più giovane di me che può vendicarsi con mio figlio, contro mio figlio, insieme a mio figlio, dell’umiliazione cui si è sottoposta. Ma se non fosse umiliazione, se la sentisse come una missione, un atto di carità, un dovere di donna a donna? O un lavoro come tanti e più simpatico di altri; ragazza mia, in fondo mettere al mondo un bambino è cosa graziosa. Anche strana, a certe condizioni. Soffro al pensiero che tu possa soffrire, che in certi momenti tu ti senta male all’idea di fare questo mestiere, e allora penso che con quei soldi un giorno potrai mettere al mondo il tuo bambino, o prenderti una laurea, o aprire un ristorantino in Giamaica, sulla spiaggia dove anch’io ho danzato.

 

Forse di me la ragazza ha compassione, della mia sterilità, del mio dolore. Ha compassione del mio odio per lei, sente il turbine che incontrollabile la investe e mi guarda con dolcezza, ma anche con forza, a dirmi di smetterla di fare la scema, il bambino non ha bisogno di questo. La rabbia che provo nel percepire la sua pietà e saggezza è grande; grande anche il mio smarrimento: io, io ridotta a elemosinare il corpo di un’altra! E lo chiamo corpo ma so benissimo che non è solo quello ma molto di più. Ma anch’io sono viva, e tutta me stessa le do. Da quando è incinta la coccolo, la invidio, la amo, la detesto, penso sempre a lei e a che diavolo pensa. Silenziosa mi giudica, e una volta passati i nove mesi potrà dire tutto quel che davvero crede; potrà liberarsi di me, questo il peso che sta portando in grembo, me con le mie manie e i miei dubbi, un peso immondo. Lei giustamente, strenuamente mi si oppone, che non schiacci il bimbo in pancia; con il fegato e la milza, con tutte le viscere del suo corpo mi respinge nel nero antro della bile. Brava ragazzina, continua così. Ho orrore di quel giorno fatale, anche se forse è il più importante della mia vita proprio perché ho incontrato l’orrore. Mi sentivo una nazista davanti a un’ebrea in un lager, e questo fu già qualcosa, sempre mi sono sentita io l’ebrea e gli altri i nazi, sempre ho fatto la vittima ma in quel momento ho capito e ammesso: per una volta ero la carnefice. Lei, una ragazza che mi guardava con occhi veri, io una pazza con occhi di bambola che non sapevo che dirle. L’avevo immaginato mille volte quel momento, mai così. L’imbarazzo iniziale, lo scioglimento grazie all’arte sapiente della signora degli affitti, mio marito che mi stringe affettuoso, una carezza al pancino della ragazza, il contratto… cento clausole a ognuna delle quali rischiavo di morire di vergogna. La prima dice che la fattrice s’impegna a disconoscere il figlio biologico appena partorito. Le lacrime sciolsero la mia firma in un rivolo d’inchiostro. Piegando il collo la ragazza sorrise, con l’aria di chi ne ha viste tante che niente più la spaventa, nemmeno l’altrui spavento, il mio, e questo mi diede forza. La guardai negli occhi e le consegnai mio figlio.

 

[**Video_box_2**]Nove mesi, nove mesi e poi davvero mio! Non l’avrei più rivista. Delicatamente avrei preso il bambino dal suo grembo e l’avrei portato via senza voltarmi. Un atto di ferocia necessario, per me, per lei, per tutti noi, per lui. Voltandomi morirei di dolore, lei urlerebbe, il bambino soffocherebbe. No. Avrò coraggio. Lo terrò tra le braccia alzandolo al cielo, griderò di gioia: Mio, mio, mio! Questo pensavo allora; tutto mi appariva naturale, facile e lecito. Un accidenti! Dalla prima notte in cui ho saputo che la ragazza era incinta non faccio che svegliarmi grondando sudore per l’angoscia che tra un anno, due anni, cinque, dieci, di notte costei torni da me non per una rimembranza o un ricatto o per nostalgia, ma per prendersi il bambino. E levarlo al cielo, gridando: mio, mio, mio! Di giorno tremo quando per strada una donna mi si avvicina; eppure io non sono incinta, e il bambino ancora non c’è, né ho la pancia che un maniaco potrebbe tagliare. Cosa accadrà quando lo terrò tra le mie braccia, chi lo ruberà dalla carrozzina? Lei, sempre lei, so che mai smetterà di pensarlo, né io di pensarla. Se io ho dei pensieri anche l’altra ne ha, filano entrambi su binari paralleli e si guardano, spaiandosi mentre fingono di incuriosirsi alle vetrine; si tengono d’occhio, a vedere cosa succede all’altro, se qualcuno dei due schiatta e deraglia. Ma se deragli tu, io muoio; e se deraglio io… tu ti tieni il bambino! Anche il marito, perché no? Stanotte in sogno ho visto il bambino accanto a me, mi guardava ma non sembrava mio figlio. Si apre una porta: lui sta con l’Altra, a letto, ha già quindici anni e le si attacca al seno. Tento di strapparglielo ma lui si schiaccia contro il ventre di lei. Mio marito è strano, sorride sempre. Mia sorella dice d’avere pazienza, che quando il figlio nascerà il mio incubo avrà fine e tornerò a essere la donna di sempre. Ma io non tornerò quella di prima”.

 

Il treno si ferma alla stazione. La giovane donna si scuote dal dormiveglia, si guarda attorno un po’ frastornata. Prende la valigetta, saluta il dirimpettaio che è preso dal telefono e le fa un cenno. Sulla scaletta del treno due mani l’afferrano, Carlo la fa volare e la bacia.

 

“Ciao amore, finalmente”.
 C’è un bambino accanto al marito, stavolta è Ginevra a sollevarlo e baciarlo. “Tesoro”.
 Tenendosi per mano i tre si affrettano verso l’uscita. “Com’è andato il viaggio?” chiede l’uomo.
 “Turbinoso. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti e alla rinfusa sono venuti a trovarmi i fantasmi di un tempo. La mia amica Cristina, te la ricordi? C’era anche un bel pittore ma il suo nome mi sfugge, e poi una ragazzina con la sciarpa al collo. Tante cose. Mi sembrava d’essere in un film di Ingmar Bergman, di quelli dove c’è una donna inquieta…”.
“Tu?”
“Un pochino mi somiglia, ma non troppo. Io non ti ho tradito con un pittore. Con nessuno. E…”.
“E?”.
 “I gatti mi sono sempre piaciuti tantissimo”, dice la donna accarezzando la testa del bimbo.
Carlo la osserva incuriosito. “Dopo mi racconti tutto”.
Hanno raggiunto la scalinata. Ginevra si ferma e fissa inquieta il marito. “Sono una donna cattiva?”.
Si guardano, scoppiano a ridere. Il bambino allunga la mano e con il dito indica la città. Vemezia sta davanti a loro in tutto il suo splendore.

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