I 99posse in concerto

Da Lennon a Fedez. Così è cambiato l'antagonismo rock

Roberto Procaccini

Nel giro di cinquant’anni si è passati dal flower power alla lirica del piagnisteo generazionale. Non si canta più per la libertà del presente. Ma per la sicurezza del futuro.

C’era un tempo la musica antagonista, quella che per più di mezzo secolo ha portato in giro per il mondo messaggi antiborghesi e rivoluzionari. C’era un tempo, e qui non c’è più. Gli epigoni di quella stagione, in Italia, sono finiti a recitare la parte di chi reclama per i giovani quelle garanzie sulle quali prima si sputava in nome della libertà. Uno degli slogan dell’autunno caldo studentesco (annata 2014) è “Non me lo posso permettere”, cioè il titolo di una canzone dell’ultimo disco di Caparezza, brano sull’Italia in crisi e sulle rinunce cui gli italiani sono obbligati. Nello stesso album il rapper pugliese suona “Giotto beat”, il cui testo gira intorno a un duplice gioco di parole: come Giotto ha rivoluzionato l’arte tardomedievale introducendo lo studio scientifico della prospettiva, così oggi c’è bisogno di un altro tipo di prospettiva, quella di vita, per la precisione, che riporti alla serenità degli anni Sessanta, quelli del boom economico.

 

Vi pare poco? Nel giro di cinquant’anni si è passati dal flower power alla lirica del piagnisteo generazionale. La questione giovanile è sempre stata centrale nella storia della canzone (più o meno) impegnata. Anche “Mettete dei fiori nei vostri cannoni” dei Giganti dava voce allo scontento dei ragazzi. Ma è cambiato l’obiettivo finale della protesta: un tempo l’intenzione era quella di rimettere in discussione (o di rigettare) l’idea di pianificazione borghese della vita. Più importante era pensare a un presente di libertà che a un futuro di responsabilità. Parlano di questo “Ruby Tuesday” dei Rolling Stones e “She’s leaving home” dei Beatles, canzoni cui fa in qualche modo eco “Io, vagabondo” dei Nomadi: di giovanissimi che, per lo sbigottimento dei genitori e con lo stupore degli stessi amici, scappano di casa correndo incontro all’avventura. “Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora”, recitava Jim Morrison. “Vecchia piccola borghesia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia” cantava Claudio Lolli nel 1972.

 

Quelli erano i capelloni, certo, poi le cose sono cambiate. E’ venuto il rock arrabbiato, ci sono stati i “laburisti” alla Springsteen, dal duo Lennon-McCartney è nato quel filone universalista e filantropico che poi si è incarnato nei Live Aid, in Bono (e in Jovanotti dalle nostre parti). Mentre in Italia abbiamo avuto il cantautorato aulico e impegnato, in Inghilterra i Sex Pistols cantavano “No future for you”. Nel 1981 Vasco Rossi scriveva “Siamo solo noi”, inno di una cultura nichilista e pronta a spegnersi prematuramente pur di godere del presente. Ancora nel 1985 i Cccp, incarnazione sovietico-emiliana del punk, celebravano il valore dell’atarassia e del disinteresse (“Non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport”).

 

La musica alternativa dà voce agli alternativi. Ma è vero anche il contrario, secondo un rapporto biunivoco. E  quindi, se per esempio il sentimento prevalente di uno è la paura, lo diventerà anche per l’altro. Ci sono due canzoni degli anni Novanta che segnano l’inversione di tendenza, il riverbero di una certa cultura musicale che segna il passaggio dal coraggio della sfrontatezza alla questua di sicurezza sociale. La prima è “Salario garantito” (1992) dei 99 Posse, antagonisti per definizione. Il brano, cantato come una salmodia, è programmatico: è la richiesta di un reddito minimo per gli universitari (quelli da collettivo studentesco), di modo che non debbano soffrire l’umiliazione di vivere sulle spalle dei genitori (“Nun poss’ chiù ‘sta ‘ncopp o 740 ‘i mammà e papà”) mentre si interessano di cortei e occupazioni. La seconda, anch’essa cartina al tornasole dei tempi che cambiano, è “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” degli Afterhours (1997), sfottò sulla doppiezza dei rivoluzionari da “sabato in barca a vela e lunedì al Leoncavallo”.

 

[**Video_box_2**]E’ con gli anni Duemila che il paradigma rock compie l’inversione di rotta a 180 gradi. Lo spartiacque lo segna Daniele Silvestri nel 2002 con “1000 euro al mese”, cover attualizzata della popolare canzonetta di Gilberto Mazzi del 1939. Il cantautore romano, “comunista così”, esegeta del Che Guevara e sempre pronto alla denuncia sociale, sdogana il sogno piccolo borghese dello stipendio dignitoso e della “casettina in periferia”.

 

Di lì è un viaggio senza ritorno. La logica del piagnisteo si impossessa della musica alternativa. Le tracce non si trovano solo nella discografia di Caparezza, ma anche in quella di altri gruppi nostrani. Come con Le luci della centrale elettrica e la loro “La lotta armata al bar” (“E cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?”). E come con i Ministri, gli autentici cantori del rock interpretato come cahiers de doléances. Basta sfilare i loro titoli: “Ballata del lavoro interinale”, “Tempi bui”, “Il futuro è una trappola” e “Diritto al tetto”.

 

E così la trasformazione è compiuta. Nel giro di due generazioni il rock è passato di mano da chi voleva rivoltare il mondo a chi vuole viverlo senza patemi. Dagli Ac/Dc che correvano sull’autostrada per l’inferno, a Fedez che, invece, non è neanche partito.

 

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