Sergio Chiamparino (foto LaPresse)

Il Fus resiste (o no?)

Marco Valerio Lo Prete

S’aprono delle contraddizioni nel Fronte unico spendaccione delle regioni pressato da Renzi. La Corte dei Conti sugli aumenti di spesa nelle regioni. Le tesi anti governo di Garavaglia (Lombardia).

Roma. Come se alle regioni non bastasse il fronte aperto con l’esecutivo, che nella Legge di stabilità gli ha imposto 4 miliardi di tagli per il 2015 generando una sollevazione dei governatori, ieri è arrivato anche il pressing della magistratura. E con esso il rischio che agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine della gestione finanziaria locale torni a essere quantomeno poco scintillante. “Confermo piena fiducia ad Aldo Reschigna e Monica Cerutti”, ha detto il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino dopo che il gip Roberto Ruscello ha disposto l’imputazione coatta (cui spesso segue un processo) per il vice presidente Reschigna e l’assessore Cerutti respingendo le richieste di archiviazione formulate dalla procura per un’inchiesta sull’uso improprio di rimborsi ai gruppi regionali della scorsa legislatura. Lo stesso Chiamparino – ex sindaco ed ex presidente della Compagnia di San Paolo (principale azionista di Intesa) – che ieri da presidente della conferenza delle regioni ha detto: “Il dialogo con Renzi lo faccio a testa alta”. Poi un ammorbidimento dei toni rispetto agli alti lai della settimana scorsa: “Anche io sono a favore della legge di stabilità e lavoro per renderla sostenibile. Se ci saranno le condizioni si troverà l’accordo, altrimenti ognuno si assumerà le proprie responsabilità”. Gli enti sostengono che saranno costretti a tagliare sanità o altri servizi essenziali (come il trasporto locale), oltre che ad aumentare le imposte locali. Per ora invece il governo insiste su tutt’altra linea: impossibile che su un flusso di spesa annuale di 150 miliardi le regioni non ne trovino 4 da risparmiare (cioè nemmeno il 2 per cento del totale). Senza contare, è stato scritto, che nel luglio scorso l’esecutivo aveva incrementato di 2 miliardi i fondi per la sanità nel 2015. Ieri comunque il ministro della Salute Lorenzin ha detto che tornare indietro su quei soldi è “l’ultima spiaggia”. Non è tanto questione di principio, spiegano al Foglio fonti del ministero: il problema piuttosto è che senza almeno 500 milioni di euro aggiuntivi dallo stato, l’anno prossimo alcune regioni rischierebbero di essere obbligate a entrare (o rimanere) nei cosiddetti piani di rientro del disavanzo. Con annessi balzelli.

 

Ammesso pure che per le regioni non ci sia la possibilità di “scontare” risorse dai fondi aggiuntivi per la sanità concordati con l’esecutivo, alcuni governatori adesso si mostrano pronti in linea di principio ad accogliere la sfida di Renzi. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ieri ha annunciato per esempio l’intenzione di “riorganizzare il servizio in tre aziende sanitarie-ospedaliere-universitarie al posto delle attuali 16. Tuttavia – e questa per certo sarà la seconda linea di difesa rispetto all’esecutivo – anche le riorganizzazioni più drastiche richiedono tempo per generare risparmi. Linea cui si potrebbero opporre alcuni dati pubblicati dalla Corte dei Conti, non esattamente un bastione di turbocapitalisti prevenuti con la Pubblica amministrazione: dal 2003 al 2008, cioè alla vigilia dell’inizio della crisi, la spesa regionale è cresciuta dell’8 per cento all’anno, con una frenata soltanto a partire dal 2009. Poi ci sono vicende patologiche che arrivano ai giorni nostri, e che contraddicono la retorica di chi agita lo spauracchio degli ospedali da chiudere: la stessa Corte dei Conti infatti, nella sua Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, osserva che “spesso i bilanci regionali si giovano delle risorse destinate alla sanità per far fronte ad esigenze di liquidità in altri settori”. 

 

[**Video_box_2**]Non a caso alcune regioni tentano timidamente di differenziare la propria posizione rispetto a quella del “Fronte unico spendaccione”: “Il fronte unico si forma per contrastare la palese irragionevolezza della proposta – dice al Foglio Massimo Garavaglia, assessore all’Economia della Lombardia, già deputato e senatore della Lega nord – Dopodiché al governo, che nella legge di stabilità propone di suddividere i 4 miliardi di tagli in base a popolazione e pil delle diverse regioni, chiediamo piuttosto di applicare i ‘costi standard’”. Garavaglia fa un esempio, diverso da quello più noto della siringa che ha un costo diverso da Asl a Asl: “In Lombardia la spesa pro capite per il personale è di 19,8 euro. Quella della Basilicata è di 97,1 euro. Ridurre la spesa in modo ragionevole vorrebbe dire per esempio portare tutti e due a 18 euro, così da accrescere i risparmi. E non invece concedere con la stessa legge di stabilità 40 milioni di euro, o 1.200 euro pro capite, alla sanità del Molise solo perché alla vigilia di un voto locale”. L’esecutivo della regione Lombardia, inoltre, è certo di avere “la giurisprudenza” dalla propria parte: già nel 2013, conclude infatti Garavaglia, la Corte costituzionale si è espressa contro i tagli lineari alle regioni. Procedere con la legge di stabilità di oggi vorrebbe dire dunque andare incontro a un’altra bocciatura, facendo automaticamente mancare le coperture per le misure dell’esecutivo Renzi.

 

 

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